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Animazione,  Editoriale,  Serie TV

Un quarto di secolo di serie tv

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Prima ancora dei film, del cinema, della settima arte, sono state le serie tv ad avvicinarmi sin da subito all’arte del racconto, a quel famoso “storytelling” di cui oggi tanto si parla non solo quando si tratta di analizzare il cinema, la televisione, la letteratura e i fumetti, ma anche la pittura, i videoclip musicali e la stessa pubblicità. La fascinazione per il piccolo schermo è così nata prima della passione che avrei sviluppato in seguito per la lettura, la storia, i videogiochi, la geopolitica, il cinema e, infine, la scrittura. 
Questo articolo ha quindi lo scopo di guidarvi nella mia esperienza ventennale con il medium della serialità televisiva, partendo dagli albori della mia infanzia fino ad arrivare ai giorni nostri con i miei bei 25 anni compiuti. Quest’ultimi li ho ribattezzati scherzosamente “un quarto di secolo” per celebrare un anniversario che ha, dunque, l’obiettivo di riflettere in linea generale del mio rapporto con le serie tv dopo un quarto di secolo e di stilare, successivamente con un articolo “parte 2”, la mia personale classifica sulle dieci serie tv che più preferisco e adoro.

Com’è nata, dunque, la mia passione per le serie tv?

Tutto partì dalla mia fruizione mattiniera e pomeridiana del canale Rai Educational – oggi noto come Rai Scuola – imposta da mia madre per imparare l’inglese a partire dall’età di 5 anni. Questo perché lei proviene da Hong Kong – ex colonia britannica e oggi una delle più importanti metropoli della Cina – e dato che lei imparò l’inglese molto bene nella sua terra natia sin da piccola, volle che anch’io imparassi per bene non solo il cantonese (lingua ufficiale a Hong Kong), ma anche la lingua della “perfida Albione” in modo da mantenere sia un’ambiente e una cultura internazionale in casa, sia un alto rendimento scolastico nella materia “inglese” rispetto ai miei compagni di classe “troppo” italofoni. Il mio primo contatto con la televisione e con le serie tv bilingue del canale Rai Educational – all’epoca davvero un’eccellenza che collaborò pure con la BBC – fu quindi di stampo prettamente didattico, improntato principalmente per imparare e potenziare l’apprendimento della lingua inglese insieme alle lezioni domestiche di mia madre. Di fatto, subii il processo inverso del popolo italiano del secondo dopoguerra, che grazie alla televisione imparò l’italiano e a distaccarsi lentamente dai vari dialetti regionali. A posteriori ne beneficiai molto di questo apprendimento sia televisivo che domestico, soprattutto quando dovetti parlare con i numerosi amici stranieri di famiglia e con i parenti dall’altra parte del mondo, senza contare le esperienze all’estero con la scuola e, infine, la fruizione di contenuti audiovisivi in lingua inglese come film, serie tv e video su YouTube. Perciò, a differenza di numerosi bambini italiani, crebbi con una cultura più sinica e britannica in casa, che in parte mi allontanò dalle discussioni più “italiane” dei miei compagni di classe e dai tratti più tipici della cultura italiana. Un terreno comune con i miei coetanei lo trovai, quindi, soltanto quando si trattava di parlare di prodotti seriali internazionali famosi come poteva essere nei primi anni 2000 Mr. Bean, che formò profondamente il mio umorismo agli antipodi con la comicità italiana.

Ad aggravare la distanza tra me e i miei coetanei in ambito televisivo, contribuì il mio spostamento dal didattico Rai Educational al più intrattenente Rai Gulp, dato che la stragrande maggioranza dei bambini della Generazione Z fruiva dei soli canali privati, in mano soprattutto a Berlusconi, come l’arcinoto Italia Uno, un punto di riferimento cardine per quasi tutti i miei coetanei. Difatti, una volta raggiunta una certà età, ossia i 9 anni, desiderai maggiormente vedere cartoni più “sofisticati” e in lingua italiana rispetto ai noiosi programmi bilingue del canale educativo della Rai, ma il passaggio dalla didattica all’intrattenimento fu fortemente vigilato dai miei genitori antiberlusconiani, che mi impedirono di guardare le reti private, note soprattutto nel trasmettere cartoni e programmi “politicamente scorretti” e volgari, se non addirittura stupidi. Questa imposizione dall’alto non mi pesò però molto, perché in primis furono i miei stessi compagni di classe a raccontarmi in ogni minimo dettaglio tutti i cartoni e programmi televisivi che guardavano sulle reti Mediaset. In secundis, fui così meravigliato dal palinsesto di cartoni di Rai Gulp che, alla fin fine, non mi pesò minimamente stare fuori dalla massa, anzi, fu anche motivo di orgoglio e, a posteriori, non mi persi chissà quali “capolavori” (a parte alcune eccezioni), visto che i miei gusti correvano nella direzione opposta rispetto alle commedie demenziali infarcite di black humour o agli anime votati spesso alla violenza machista che imperavano tra Italia Uno e MTV.

Ciò che mi piaceva del canale pubblico per ragazzi Rai Gulp, era la sua grande varietà di cartoni, improntati principalmente all’avventura e ad immergere il telespettatore bambino in un viaggio formativo che non lo meravigliasse soltanto a livello visivo, ma che lo facesse anche riflettere un minimo sulla malvagità dell’uomo e della società. Da questo punto di vista, Rai Gulp trasmise buoni, se non ottimi, cartoni animati italiani come Martin Mystère, Huntik, L’uomo invisibile, Farhat – Il principe del deserto, L’ultimo dei Mohicani, Monster Allergy, La compagnia dei celestini, Kim e Rat-Man, per non parlare delle iconiche serie animate estere come Code Lyoko, Deltora Quest, Wolverine e gli X-Men, D’Artagnan e i moschettieri del re, La Stella della Senna, Toradora e, infine, il mitico Avatar: La leggenda di Aang. Quest’ultimo cartone americano in particolare, fu quello che più mi rimase impresso di tutto l’ottimo palinsesto di Rai Gulp, tant’è che lo rividi più volte nel corso della mia vita, fino a scoprirne la sua più intima essenza filosofica, produttiva, poetica e adulta, scardinando così definitivamente un mio pregiudizio che per anni, finite la mia infanzia e preadolescenza, mi fece considerare l’animazione come un qualcosa di infantile indirizzato esclusivamente ai bambini e ragazzini. La celebre serie animata di DiMartino e Konietzko, non a caso, nel corso degli anni divenne ben presto la mia serie tv preferita in assoluto, superando tutte le numerose belle serie tv live action che avrei recuperato successivamente.
Rai Gulp fu quindi fondamentale per la mia crescita come bambino e spettatore televisivo, spostandomi da una fruizione dell’audiovisivo più didattica ad una più intrattenente, ma già comunque un minimo attenta alla cosiddetta “macrotrama” degli episodi “orizzontali”, che col tempo mi spinse a preferire il cinema rispetto alla serialità televisiva. L’esperienza con la Rai durante la mia infanzia mi portò, di conseguenza, a conoscere il vasto e variegato mondo dell’animazione insieme ai film Pixar e Disney che recuperai all’epoca in famiglia, formando così un mio primo gusto su questa tecnica alternativa nel narrare storie, ma che avrei apprezzato soltanto come si deve molti anni più tardi, tra la scoperta del cinema e vari confronti con amici e utenti del web cinefili.

Con l’inizio della preadolescenza, le serie animate cominciarono lentamente a passare in secondo piano in favore delle serie tv live action, soprattutto dopo che mio padre cominciò a farmi vedere più film “in carne ed ossa” piuttosto che lungometraggi animati. Tutto ciò, però, non mi avvicinò alla Settima Arte, pur apprezzando i film che vidi ai tempi come Star Wars e Jurassic Park, perché fu sempre il piccolo schermo il mio punto di riferimento principale per recuperare opere audiovisive. Sempre su Rai Gulp, infatti, cominciai ad interessarmi alle serie tv adolescenziali a tema crime e fantasy come le tedesche Grani di Pepe e 4 gegen Z, per non parlare del mio amore sconfinato per la telenovela argentina Rebelde Way, che segnò gran parte della mia prima adolescenza nonostante non fossi il target di ragazzine a cui mirava Rai Gulp. 
Per anni, inoltre, fu la mia serie tv preferita in assoluto insieme ad Avatar: The Last Airbender. Questo perché, in piena fase ormonale ed adolescenziale, sognai di vivere in un college pieno di avventure goliardiche e romantiche, ma anche dal forte sapore drammatico e giallo come l’inaspettato scontro tra i protagonisti e una setta massonica, La Loggia, che picchiava e discriminava gli studenti poveri con borse di studio. La telenovela catturò, seppur nella sua “infantilità teen” retorica e nei suoi triangoli/intrecci amorosi, tutti i tratti tipici dall’adolescenza in cui in parte mi ci rispecchiavo, a partire dalla conflittualità con gli adulti fino alle problematiche legate al sesso, all’amicizia, al bullismo e, soprattutto, alla possibilità di poter esprimere liberamente la propria individualità attraverso l’arte della musica, tanto da proteggerla ad ogni costo anche andando contro il potere costituito. Rivista oggi, sicuramente farebbe ridere i polli per certe ingenuità ed emergerebbe tutta la noia di un’immensa macrotrama infinita composta da più di 300 episodi. Eppure, quella telenovela argentina rappresentò, nel bene e nel male, un tassello importante della mia fruizione televisiva, tant’è che mi proiettò definitivamente nell’esplorazione totale delle serie tv live action e a ricercare prodotti televisivi con trame e narrazioni più sofisticate.
Difatti, parallelamente al cult argentino con tanto di band annessa che influenzò addirittura i miei gusti musicali dell’epoca e a seguito dell’allentamento della censura famigliare antiberlusconiana sui canali privati, potei finalmente recuperare su canali come K2, Frisbee, Boing e Super! serie tv più particolari del solito che mai durante l’infanzia avrei potuto vedere. Emblematico fu il recupero “horror” dell’iconica serie Piccoli Brividi – basata sui libri di R.L. Stine che leggevo da ragazzino – che feci con mio fratello per farci coraggio nell’addentrarci nella serialità televisiva horror per ragazzi, idem con la visione – più divertente e spensierata – di La mia babysitter è un vampiro e La nuova famiglia Addams. Con una maggiore fruizione di serie tv con personaggi in carne d’ossa che affrontavano mostri, spiriti, stregoni e criminali, cominciai significativamente ad entrare in un’ottica più matura e a tratti traumatica nel fare esperienza dello storytelling audiovisivo, acquisendo, di conseguenza, una maggiore comprensione del mondo circostante che non era affatto tutto rose e fiori. Tutto ciò mi permise di uscire dalla bolla animata “protettiva” edulcorante, nonostante in quegli anni preadolescenziali recuperai serie animate più dissacranti come I due fantagenitori, A tutto reality e Lo straordinario mondo di Gumball.

Il passaggio significativo all’adolescenza pura, che comportò una totale presa di coscienza sulla realtà nuda e cruda del mondo dovuta al mio seguire maggiormente i fatti di cronaca e all’approfondimento della mia passione per la storia, avvenne nuovamente in territorio Rai: stavolta, però, sul canale 2 nel recupero di numerose serie poliziesche con mio padre. Vedere sparatorie, attentati, omicidi, torture, duelli all’ultimo sangue, scontri violenti tra forze dell’ordine (soprattutto federali) contro criminalità organizzate mafiose e terroristiche tutti inseriti in contesti americanocentrici e geopolitici, mi portò definitivamente nel “mondo adulto” e ad apprezzare maggiormente i generi come il poliziesco, il giallo e il thriller. Quest’ultimi furono degli stimoli fondamentali sia per tenermi incollato al famoso “caso del giorno”/”caso della settimana” da risolvere col team poliziesco cazzuto o col protagonista detective super carismatico pronto a tutto, sia nella formazione di una mia particolare predilezione per le serie televisive drammatiche, che segnarono, inoltre, il mio ingresso ufficiale nella serialità televisiva americana. L’esperienza serale in salotto insieme a Rai 2 con tutto il suo palinsesto poliziesco da NCIS a Hawaii Five-0, passando per Elementary (la migliore dell’ammucchiata copagandista), segnò l’apice ma anche il declino della mia fruizione in televisione delle serie tv. La ripetitività delle stagioni, il sempre più ridondante schema delle indagini a trama verticale, certi cambi attoriali nei cast storici e l’assenza di una vera e propria macrotrama orizzontale che pone tutte queste serie poliziesche nell’eterno presente (alcune tutt’oggi in trasmissione), mi portò a rifugiarmi maggiormente, se non completamente, nella mia passione per i videogiochi, che fu ben più appagante nel suo storytelling mischiato all’illimitata fantasia dell’interattività. L’abbandono dell’uso della televisione in generale per guardare serie tv, fu anche dovuto ad un calo qualitativo generale di tutti i canali per ragazzi che seguivo regolarmente, a partire da Rai Gulp, che dopo la conclusione nel 2013 di Rebelde Way, cominciò a diventare un canale sempre più per ragazzine, tra nuove telenovelas di bassa lega e cartoni per lo più femminili dai contenuti superficiali e poco formativi. Tutti questi fattori decretarono così la fine della mia cosiddetta “era televisiva” nel 2014, in cui ormai il futuro non fu più rivolto in quella TV quadrata (4:3), poi diventata rettangolare (16:9), che illuminò le numerose serate in famiglia all’insegna del divertimento e della condivisione, ma bensì in uno schermo più piccolo e “solitario”, ovvero quello del PC, in linea con la mia passione per i videogiochi – ormai portata avanti sin dai tempi della preadolescenza – che sarebbe finita solo con la fine (traumatica) dell’adolescenza.

La grande (e vera) svolta della mia fruizione del medium delle serie tv non poté, quindi, che arrivare in un momento di profonda crisi e disinteresse verso tutto ciò che riguardava la televisione. Ma, soprattutto, non poté che arrivare da un’influenza esterna che mai mi sarei aspettato che arrivasse a tal punto da cambiare in modo sconvolgente anche il mio modo di fruire le serie tv. E che a posteriori, riflettendoci attentamente anche con il soggetto interessato, accelerò il mio avvicinamento non solo alla serialità televisiva veramente impegnata, profonda, seria e cult, ma anche indirettamente ai film, al cinema, alla Settima Arte e, infine, alla frequentazione abituale della sala. Ovviamente anche altri fattori giocarono un ruolo fondamentale nella mia maturazione da appassionato di serie tv e di cinema, come la mia innata curiosità e sete di conoscenza verso tutto ciò che è nuovo e, soprattutto, audiovisivo. Ma, quell’incontro fatidico in terza superiore tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 – a metà proprio degli anni ‘10 – fu davvero una miccia che fece esplodere non solo due passioni, ma anche una profonda, sana e importantissima amicizia che dura tuttora.
Sto parlando nientemeno che di Daniele, il mio migliore amico, che all’epoca era un grande appassionato di serie tv. A quei tempi, mentre io preferivo sfondarmi di videogame, lui si abbuffava di tantissime serie tv. Non mancò, pertanto, l’occasione per il mio amico di persuadermi a recuperare qualche serie in quelle fastidiose e noiose giornate pomeridiane a scuola, tra la fine delle lezioni e le 2 ore di ginnastica che ci attendevano dalle 14:45 alle 16:45. In quel lasso di tempo, perciò, mentre i nostri compagni chiacchieravano del più e del meno, noi due approfondivamo la nostra conoscenza discutendo anche delle nostre rispettive serie tv preferite, in cui emerse chiaramente la mia ignoranza in materia e che mi spinse così ad approfondire i suoi vari consigli. Daniele non solo mi introdusse ad un nuovo universo televisivo che ignoravo bellamente per via della mia bolla tv-centrica costruita negli anni dell’infanzia e della preadolescenza, ma introdusse il sottoscritto nel magico mondo dello streaming, “l’arte oscura” che mi permise finalmente di entrare nella tana del bianconiglio e di fare esperienza di una serialità più adulta, cruda, a tratti spietata e tecnicamente più sofisticata rispetto agli standard a cui ero abituato sino ad allora. Questa forte rottura col mio passato più “edulcorato” e “semplicistico” diede avvio a quella che io chiamo “l’era dello streaming” per distinguerla “dall’era televisiva”, proprio per sottolineare il mio passaggio dalla fruizione in TV a quella sul Web delle serie tv, entrando quindi pienamente al 200% in quella definizione di “nativo digitale” che tanto caratterizza (purtroppo) la mia generazione. 

Il vaso di Pandora si aprì quindi, ma fu davvero una ventata d’aria fresca nonostante abbia rivalutato in negativo (ma non scadendo nell’insufficienza, sia chiaro) le serie tv che mi fece conoscere Daniele. Ricordo ancora con affetto il nostro reciproco scambio delle nostre serie tv preferite di allora, ovvero Smallville e Rebelde Way, in cui io imparai ad apprendere la genesi di Superman mentre lui, invece, il mio amore morboso per la nota telenovela argentina (oggi purtroppo soppiantata dalle più mainstream Il Mondo di Patty e Violetta). Le nostre chat Whatsapp pomeridiane e notturne si fecero così sempre più intense per via delle serie tv che guardavamo in contemporanea, e non mancò l’occasione anche di vederci di persona nelle rispettive abitazioni per vedere gli episodi cruciali delle rispettive serie tv preferite dell’epoca. La fruizione delle serie tv non fu più così come prima, ossia in famiglia o in solitaria nel salotto di casa o in compagnia di mio fratello nel recuperare su YouTube The Haunting Hour (sequel spirituale di Piccoli Brividi), ma finalmente con un coetaneo in grado di condividere pienamente una passione con cui nessun altro condividevo, dato che tutti i miei altri amici erano nerd videogiocatori come me. Le serie televisive rafforzarono, perciò, una profonda amicizia che avrebbe resistito allo scorrere del tempo, come numerose disgrazie e circostanze capitate ad entrambi che avrebbero potuto far finire lentamente un’amicizia. Ma così non è stato, proprio perché entrambi anteponiamo il “soggetto al mero “oggetto”, ergo le serie tv sono state soltanto un mezzo, e non un fine, nel definire un rapporto cresciuto all’insegna del rispetto, della sincerità, dell’empatia e dell’affetto, e il quale naturalmente non poteva che trovare terreno fertile anche all’insegna dell’arte, perché, checché ne dicano i cinefili più duri e puri, anche la serialità televisiva può essere considerata arte.
Questa presa di consapevolezza, acquisita soprattutto dopo una parentesi snobistica e “frusciantiana” nella visione del cinema e dell’arte in generale, partì in realtà, inconsciamente, già da quel trio di cult che mi fece conoscere Daniele, ovvero Smallville, The Walking Dead e Person of Interest, che ri-fondarono le basi del mio gusto verso la fantascienza, il fantastico, l’horror, il drammatico e il supereroismo.

Smallville mi riportò con prepotenza nell’immaginario supereroistico in carne ed ossa, che di lì a poco mi fece entrare in un periodo nerd (2016-2019) fissato coi supereroi e i cinecomics. Oltre ai film del MCU e del DCEU (io ero team Marvel e Daniele team DC), recuperai le serie netflixiane del MCU come Daredevil (ottima e nella mia top 10) che convinsi anche il mio best a recuperare, Jessica Jones (buona la prima stagione, le altre no), Iron Fist (mediocre), Punisher (stesso discorso per J.J.) e il crossover The Defenders (non perfetta ma esaltante all’epoca). L’aderenza di queste serie tv supereroistiche Marvel ad un contesto più urbano, sporco, violento, sanguinolento al massimo e, dunque, più realistico e umano rispetto ai loro “parenti cinematografici”, mi fece comprendere quanto il mito dei supereroi fosse una fonte inesauribile di creatività se solo avesse avuto una direzione più artistica e meno fissata con lo sfondamento totale del box office a tutti costi. Questo altro lato della medaglia del supereroismo audiovisivo, resistette così anche dopo il mio profondo disinteresse verso i supereroi in generale nel post-Endgame, trovando ancora forti stimoli in serie tv “ereticamente” supereroistiche come The Boys (speriamo si risollevi un po’ con la quarta stagione), Invincible (magnifica e ho comprato pure il fumetto del genio Kirkman) e, infine, Legion (ad oggi la miglior opera audiovisiva supereroistica di sempre e presente nella mia top 10).
Per quanto riguarda i recuperi folgoranti di The Walking Dead e Person of Interest, che mi sconvolsero più di Smallville all’epoca per la crudezza e la drammaticità delle tematiche affrontate (morte, mondo post apocalittico con zombie, criminalità, mondo orwelliano con I.A. senzienti, istinto di sopravvivenza, giustizia privata, complotti…), affinarono il mio gusto verso l’horror e la fantascienza adulta. Nonostante le considerassi già all’epoca un po’ ripetitive nella loro componente “verticale” della trama, che mi portò ad abbandonare TWD (molto meglio il fumetto di Kirkman che è un mezzo capolavoro e che poi feci recuperare a Daniele) e a rimanere deluso dalla stagione finale di PoI, rimasi comunque stregato e profondamente attratto da queste due narrazioni omeriche e drammatiche, le quali poi fecero iniziare quel nefasto fenomeno del binge watching, ossia un consumo vorace e consecutivo di tonnellate di episodi. Rispetto alla TV, infatti, recuperare serie tv in streaming permette a qualsiasi spettatore di divorare intere stagioni in pochissimi giorni (alcuni pazzi il giorno stesso addirittura), ed essendo stato io stesso vittima all’epoca di questo fenomeno nel mio zenit di fruizione di serialità televisiva, il recupero di questi serial americani diventò quasi come una droga al pari dei videogiochi. A differenza di quest’ultimi, però, qualcosa lo si imparava ed assimilava nel proprio sguardo sul mondo e sull’arte del racconto, tant’è che portò me e Daniele a ricercare prodotti seriali sempre più creativi nella forma, ma anche più riflessivi nella sostanza: Tredici (buona la prima, ma perché vidi l’orrida seconda stagione?!), Black Mirror (shock e cult generazionale, poi degenerò anch’essa), Stranger Things (tuttora molto carina ma sopravvalutata), Breaking Bad e, infine, la mitica Twin Peaks.

Non è un caso che Breaking Bad e Twin Peaks siano state le ultime due serie tv che vidi prima della scoperta del cinema alla fine del 2017, che tra l’altro coincise con la fine della mia adolescenza. Queste due serie rappresentarono, infatti, un grande spartiacque nella mia fruizione del medium della serialità televisiva, in virtù della loro natura fortemente cinematografica, autoriale e artistica, la quale mi fece comprendere come le serie tv non fossero soltanto un mero intrattenimento ad uso e consumo del telespettatore, ma anche un valido prodotto audiovisivo degno di essere analizzato e dibattuto come se fosse un’opera d’arte. Nel recupero di queste due pietre miliari della televisione, infatti, entrai più in contatto col termine “capolavoro”, ma anche “recensione”, perché per la prima volta cominciai a documentarmi più specificamente sulle serie tv spulciando ossessivamente Wikipedia e, soprattutto, video su YouTube. In realtà, già dalla fine del 2015 cominciai ad utilizzare “il Tubo” per seguire le recensioni nerd sui cinecomics e su Star Wars di Victorlaszlo88 & Co., ma con Breaking Bad e Twin Peaks, dati i loro finali “ambigui” molto discussi dai fan, mi spinsero a ricercare “video spiegazione”, anche in inglese, per avere maggiori delucidazioni e chiavi di lettura sulla complessità filosofica di entrambe le serie televisive. La svolta verso video più “d’essai” all’americana, si rivelò dunque fondamentale per la mia evoluzione da spettatore generalista (e “consumatore seriale”) di prodotti audiovisivi a vero e proprio appassionato di serie tv e, successivamente, di cinema.
Tuttavia, più che Breaking Bad (il mio primo prodotto audiovisivo in assoluto valutato su IMDb e presente nella mia top 10), la quale comunque consolidò il mio gusto verso il genere “crime/gangster” e la sua estetica in quinta superiore, fu Twin Peaks (anch’essa nella mia top 10) il mio pre-ingresso alla Settima Arte, per via della sua natura fortemente cinematografica dovuta dalla presenza del genio di David Lynch. Il regista di Missoula fu, infatti, il primo nome insieme a quello di Tarantino che associai al termine “regista”, che ai tempi mi era totalmente sconosciuto data la mia assoluta ignoranza sul mondo del cinema. La fruizione della serialità da quel momento, ossia con la fine delle superiori e dell’esame di stato, non fu più come quella di prima, a partire dalla mia sconvolgente immersione totale nell’universo orrorifico lynchiano di Twin Peaks, fino alla scoperta della Settima Arte in un viaggio in aereo di ritorno da Hong Kong con la visione scioccante di Matrix verso la fine di agosto 2017. L’approfondimento di termini come “regista”, “regia”, “sceneggiatura”, “sceneggiatore”, “produttore”, “fotografia”, “filmografia”, “showrunner” e via discorrendo, mi aprì ad un mondo completamente nuovo, fervido e altamente stimolante, il quale mi portò successivamente a recuperare la filmografia di Lynch e a scoprire totalmente il cinema come arte indiscussa.

breaking bad serie tv

twin peaks serie tv

Tralasciando per un attimo la Settima Arte, che avrà più avanti un grandissimo spazio nel mio articolo “Un quarto di secolo di cinema”, sul fronte televisivo la mia percezione cambiò drasticamente, talvolta anche estremizzando la mia opinione sulle serie tv nel reputarle come un’arte inferiore, in quanto incapaci di rivaleggiare con l’intrinseca artisticità del cinema. Questa estremizzazione del mio pensiero dovuta in parte al mio indottrinamento alla filosofia di Federico Frusciante – che col tempo ho imparato a rigettare, e in parte ad un’effettiva maggior qualità del cinema dato che è un’arte più “anziana” e con una minor propensione ad “allungare il brodo” di una narrazione di una storia, ridusse drasticamente la mia fruizione di serie tv a partire dal 2018. La mia passione per il cinema (tuttora la più forte tra tutte le mie passioni) sostituì così quasi definitivamente quella per le serie tv, dato che l’odio per le trame “verticali” e dell’intrinseco “allungamento del brodo” raggiunse il culmine a quel tempo, soprattutto quando mi accorsi che recuperare una serie di film era meno dispendioso in termini di tempo rispetto al recupero di una singola serie tv. Senza contare i maggiori stimoli esistenziali, filosofici, morali, sociali e politici che i singoli film mi davano rispetto a tutte le altre serie tv che avevo visto precedentemente messe assieme, seppur alcune siano eccezionali e di ottima fattura tutt’oggi.
L’abbandono di alcune serie tv dopo una o alcune stagioni fu così fisiologico con la mia crescita a livello cinematografico, a parte alcune eccezioni come Legion, Dark (graditissima sorpresa e presente nella mia top 10), The Boys e Crisi in sei scene di Woody Allen. La ricerca di nuove serie tv fu, di conseguenza, quasi completamente arrestata con la formazione della mia passione verso tutto ciò che riguardava il cinema, anzi, la ricerca di eccezioni televisive come quelle sopra citate, fu frutto di una mia voglia di scoprire se ci fossero davvero ancora serie tv in grado di rivaleggiare con la magnificenza della Settima Arte. Il mio gusto per l’estetica e per lo “storytelling” si era dunque sempre più affinato col tempo e il mio palato “esigente” non poteva più accontentarsi di narrazioni disciolte in millemila episodi, ma vivendo nel pieno degli anni ‘10, non recisi mai totalmente il mio legame con le serie tv, anche perché in quegli anni quest’ultime stavano sempre più assumendo una forma cinematografica. Tutto ciò non fu sinonimo di maggior qualità nella maggior parte dei casi, ma l’annoso scontro tra cinema e serie tv, o meglio, tra sale cinematografiche e piattaforme streaming, non poté che vedermi coinvolto in prima persona e tifare per la fazione “cinema-sala”. Aderendo a tale “bandiera”, ossia quella cinefila opposta a quella dei nerd-youtuber, non mi precluse però di vedere le “perle” nel “mare di letame” del mondo seriale televisivo, ormai diventato un’industria pari a quella cinematografica, che tuttora sta rimpinzando i suoi mediocri cataloghi streaming a suon di quattrini che gli regala un pubblico sempre più disaffezionato dal (“vero”) cinema. Tuttavia, le poche eccezioni televisive e il costante rimandare nella watchlist il recupero di nuove serie tv potenzialmente “di qualità” – ovvero a trama il più possibile orizzontale con storia conclusa, con pochi episodi e con un impianto tecnico-visivo di stampo cinematografico – per mancanza di tempo e voglia, portarono le serie tv agli estremi margini del mio abituale consumo di materiale audiovisivo.
E fu quindi nell’ennesima crisi sulla mia fruizione seriale televisiva che risiedettero i semi dell’ultima mia rinascita sul fronte delle serie tv, che tuttora perdura e che di fatto rappresenta la sintesi più sana e migliore del mio sguardo (e approccio) nei confronti della serialità televisiva-streaming. E tutto ciò non poté che arrivare, un’altra volta, da stimoli esterni alla mia “comfort zone” (stavolta non più videoludica ma cinefila per fortuna) che trovarono il loro minimo comune denominatore in un evento epocale del nostro secolo: la pandemia di COVID-19.

legion serie tv

dark serie tv

the boys serie tv

Il Coronavirus sconvolse totalmente la vita di tutti gli abitanti della terra tra il 2020 e il 2021, tanto da modificare radicalmente il nostro stile di vita ed evidenziando così più esplicitamente tutte le deficienze ed inefficienze del nostro sistema liberal-democratico di stampo capitalista, portando in auge, inoltre, l’annoso tema della salute mentale. Di fronte ad una tale desolazione tra scenari di morte e di clausura di quel periodo che purtroppo mi colpì duramente nella mia sfera privata (tanto da sconvolgere la mia intera esistenza anche dopo la fine dell’apocalittica crisi entrata ormai nei libri di storia), il sottoscritto non poté che distrarsi, come tutti i cinefili d’altronde, guardando film in casa e stando a contatto online con i propri amici, dato che la vita sociale al di fuori di casa fu praticamente annullata. Tutto ad un tratto, però, ci fu anche molto più tempo libero nel disagio dilagante che infuriava fuori dalle nostre comode abitazioni e, di conseguenza, non potei che riscoprire la serialità televisiva e recuperare così i numerosi “arretrati” accumulati nella mia infinita watchlist. Stavolta, però, il recupero di determinate serie tv che reputai interessanti, non fu più in solitaria come accadeva dal 2018 in poi per via dell’abbandono di Daniele di quel mondo a causa dei suoi impegni universitari, ma fu in compagnia mediante videochiamate con i miei cari amici Federico ed Elia.
Entrambi li conobbi ben prima di conoscere Daniele, ovvero tra la prima e la seconda superiore, e col tempo approfondimmo la nostra amicizia attraverso la nostra comune passione per i videogiochi, soprattutto nelle numerose ore spese in partite online multiplayer, in cui si creò una chimica davvero affiatata all’insegna del puro divertimento o, detta più goliardicamente, nel cazzeggio più totale. Le nostre scampagnate online, però, non ci preclusero poi di incontrarci anche al di fuori del monitor di un PC e dunque dal vivo, tanto è vero che all’epoca del mio “apogeo” delle mie relazioni sociali (2016-2017), i nostri contatti si intensificarono all’interno di una comune grande compagnia composta principalmente da amici provenienti dalla mia scuola tra cui anche Daniele. Con la fine della mia passione per i videogiochi e con lo scioglimento del mega gruppone scolastico dovuto a conflitti e scissioni interni, la nostra amicizia comunque perdurò anche con l’arrivo della pandemia, nella quale riscoprimmo insieme il potenziale tecnologico delle videocall per ricondividere assieme una passione, quest’ultima passata dall’interattività del videogioco alla visione condivisa di una serie tv. Rispetto ai film, che comunque rimasero un elemento centrale e vitale in quel periodo funesto, le serie tv ricoprirono un ruolo leggermente più catartico e stimolante per via di una continua ed appassionante interazione in tempo reale con amici-appassionati nel condividere un viaggio all’interno di una grande storia suddivisa in più episodi. La pandemia di coronavirus, col suo rallentamento drastico dei ritmi forsennati dell’era pre pandemica, mi fece inoltre riscoprire il piacere di gustare pian piano una narrazione episodica (max 3 ep. al giorno), ossia quel fruire naturale della serialità televisiva per cui è nata da sempre e, dunque, in antitesi col binge watching forsennato emerso recentemente con l’era delle piattaforme streaming on demand. Ma, più di ogni altra cosa, fu proprio il poter commentare e speculare in tempo reale con Federico ed Elia sugli episodi visti che mi spinse a rinnamorarmi delle serie tv, in cui la condivisione di un tale contatto umano, seppur filtrato da un monitor di un PC, diede finalmente un senso alle mie grigie giornate imprigionato in casa. Tanti furono infatti i momenti di gioia all’insegna del ritrovato “cazzeggio”, a partire dal fetente live action Netflix di The Witcher (Yennefer indiana fu il mio unico “guilty pleasure” di quella seriaccia), fino al clamoroso recupero di Mr. Robot (inquietante il parallelismo tra il five/nine hack e la pandemia di Covid-19), che da quel momento divenne inaspettatamente la mia seconda serie preferita di sempre. Con l’allentamento progressivo dei lockdown, non mancarono a sto punto le occasioni per coinvolgere altri nostri amici dell’epoca nel vedere insieme a noi serie tv in “didattica mista”, ovvero tra le nostre rispettive abitazioni e le videocall, come Strappare lungo i bordi (buona serie ma dal finale moralmente sbagliato), You (ottima, peccato solo che non l’abbiamo mai conclusa), Sex Education (inizio folgorante, conclusione di m****) e Obi-Wan Kenobi (ce n’era davvero bisogno di questo inutile midquel?).
Ovviamente non poteva mancare all’appello anche il caro Daniele, che da maestro involuto ad allievo, una volta presa dimestichezza con le videocall (ai tempi un oggetto alieno per lui), decise di accompagnarmi nel mio catartico e terapeutico (ennesimo) rewatch di Avatar: The Last Airbender e The Legend of Korra in un periodo molto difficile della mia vita, ma che fu fondamentale a posteriori per entrambi nel rientrare insieme in questo magico settore del mondo dell’audiovisivo, che ha contribuito a rafforzare la nostra indissolubile amicizia. Da quel momento, infatti, iniziò, e tutt’ora continua (nel limite dei nostri impegni), un nostro entusiasmante percorso “cineforum” nel mio focolare domestico tra recupero di film (che sviscererò meglio nell’articolo “Un quarto di secolo di cinema”) e serie tv. Folgoranti furono le visioni di serie come Welcome to the N.H.K. (deprimente quanto magnifica e presente nella mia top 10), Gli Anelli del potere (davvero bella, ci ha stregato entrambi), Sense8 (finalmente ho completato la poetica wachowskiana, da rivedere al più presto!) e doverosi rewatch come Invincible (Daniele il fumetto l’ha poi divorato) e Mr. Robot (quante risate [3×02] ma anche tante lacrime [3×08, 4×10]!).

sex education serie tv

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sense8 serie tv

L’ultima (stavolta veramente) linfa vitale del mio lungo percorso nel vasto mondo delle serie tv, che è strettamente collegata alla penultima emersa dai “germi” della pandemia di coronavirus all’insegna dell’unità e della condivisione, arrivò sempre dai miei amici Elia e Federico, ma poco prima dell’imminente disastro che avrebbe procurato il covid nel 2020, anche se poi si evolvette pienamente durante i vari lockdown deliranti.
Facendo due passi indietro, quindi, mentre a fine 2017 abbandonai definitivamente il gaming, i miei due amici, invece, cominciarono a sviluppare un’insolita passione per gli anime dopo la visione di vari video su Youtube. In quel periodo l’animazione la consideravo poco, e la vedevo soprattutto come un prodotto generalmente indirizzato ad un pubblico di bambini/ragazzini salvo rare eccezioni, tant’è che fu il motivo per cui agli inizi della mia neonata cinefilia decisi di recuperare quasi solo cinema live action nel biennio 2018-2019. Sull’animazione giapponese, inoltre, in quel periodo non ne avevo una buonissima opinione, perché nonostante conservassi un bel ricordo di anime “infantili” trasmessi su Rai Gulp come D’artagnan e i moschettieri del re, Deltora Quest, La stella della Senna e alcuni film di Miyazaki, al tempo stesso approfondendo la storia, la geopolitica e la cultura del Giappone, dell’industria anime vidi il suo lato più “sessualizzante”, “pervertito”, “disagiante” e “alienante” all’inverosimile. Il fenomeno degli otaku e della feticizzazione delle waifu mi portò col tempo a formare un profondo pregiudizio su un’animazione magari anche graziosa a vedersi, ma dal character design stereotipizzante al massimo sui corpi e sui volti di ambo i sessi, e tutto ciò entrò in profondo contrasto con l’animazione italiana ed americana con cui ero cresciuto. L’eterna maledizione e chiusura pregiudiziale verso i canali privati quali Italia Uno e MTV continuò così a perseguitarmi ancora dopo un decennio, di conseguenza, pure le serie anime “discutibili” che mi consigliarono Elia e Federico mi tennero lontano da quel mondo, che però intanto stavo imparando a conoscere meglio. Essendo comunque una persona animata da una grande curiosità che mi rende tutt’oggi un cinefilo onnivoro, cominciai a mettere in discussione la mia repulsione verso gli anime cominciando ad esplorare i film al posto delle serie televisive. Nei lungometraggi animati giapponesi, infatti, trovai una forma di compromesso con quell’estetica respingente in primis con Your Name, e poi a partire da Summer Wars di Mamoru Hosoda, un film che fu trasmesso su Rai Gulp ai tempi della mia infanzia e che rividi con grande commozione. Da quel nostalgico punto di incontro con “l’era televisiva”, da buon cinefilo cominciai a recuperarmi tutti i film della filmografia di Hosoda, in modo da poter vedere in sala per la prima volta un anime, ovvero Mirai, il penultimo lungometraggio del regista, nell’ormai lontano ottobre 2018. Da quell’esperienza al cinema con tanto di opuscolo sul film con dentro un’intervista al regista, imparai che gli anime non erano soltanto quella facciata malsana che mi fecero vedere quelle mie ricerche storico-culturali sul Giappone, o meglio, erano (e sono) anche quella faccia della medaglia, ma c’era anche quell’altra faccia che avevo totalmente ignorato, come quei tre lungometraggi di Miyazaki messi in onda su Rai Gulp (Ponyo, Il castello errante di Howl, Il mio vicino Totoro) che all’epoca mi fecero davvero commuovere. Da quella visione di Mirai in sala, imparai quindi a distinguere innanzitutto gli anime cinematografici da quelli televisivi, ma soprattutto cominciai a farmi un’idea di chi fossero Miyazaki, Hosoda e Shinkai, ma senza scavare troppo approfonditamente. Difatti, in quegli anni mi impegnai soltanto a completare la filmografia shinkaiana e a cercare film anime simili dalla forte carica emozionale come La forma della voce e Voglio mangiare il tuo pancreas, dato che per il cinema più “impegnato” mi interessò di più recuperare quello live action. Figurarsi, perciò, recuperarsi serie animate giapponesi.

summer wars

Verso la fine del 2019, più precisamente ad ottobre, reduci il sottoscritto, Federico ed Elia dalla visione in sala del film anime “parzialmente” deludente Weathering with you di Shinkai, fu la volta buona in cui accettai di vedere una serie anime da loro consigliata e molto amata. Documentandomi in rete ed osservando la sua estetica, oltre che a scorgere delle somiglianze produttive con Twin Peaks, mi sembrò qualcosa di estremamente particolare e diverso dagli anime che guardavano solitamente, inoltre dato che sia in rete, sia da loro venne descritto come un capolavoro, accettai ben volentieri di guardare la mia prima serie anime “adulta”. Neon Genesis Evangelion mi sconvolse completamente e mi aprì ad un mondo che non potei neanche immaginare a quei tempi, in cui per la prima volta vidi un’animazione sondare terreni mai visti prima, fino a toccare le corde del mio esistenzialismo tormentato come solo il cinema poteva fare allora. Non a caso, la summa della serie la si raggiunge col suo film conclusivo, ovvero The End of Evangelion diretto dal genio Hideaki Anno, che mi turbò a tal punto da dover ricercare qualsiasi “spiegazione” e “delucidazione” sia da Elia e Federico, sia in rete. All’epoca fui parecchio fortunato, perché proprio in quel periodo la serie fu inserita nel catalogo di Netflix, così da ricevere una nuova popolarità presso il grande pubblico e, di conseguenza, una caterva di “video analisi” e recensioni. La serie partorita dalla mente depressa e perversa di Anno, mi portò prepotentemente fuori dalla mia zona di comfort e a riflettere sui massimi sistemi come non mi accadeva dai tempi di Twin Peaks, segnando così ufficialmente il mio ingresso nella serialità anime. Quest’ultima non è nient’altro che una grande branca del mondo delle serie tv, capace nel suo minutaggio più asciugato (23 minuti a puntata) e nelle illimitate potenzialità dell’animazione giapponese, di creare storie altamente immersive sia da un punto di vista drammaturgico, sia da un punto visivo, che mi fece completamente rivalutare l’animazione come “tecnica narrativa” e a non bollarla più come un “genere solo per bambini”. La riscoperta a 360 gradi dell’animazione ripartì proprio da NGE, che di lì a poco mi spinse a recuperare i classici dell’animazione giapponese (e a farli conoscere anche ai miei compari più “televisivi”), fino a ritornare con nostalgia a riscoprire quelli della Pixar, della Dreamworks e della Disney.
Ritornando sul fronte della serialità televisiva animata giapponese, con lo scoppio della pandemia (come anche nel post-pandemia) non fu quindi un problema tuffarmi con Elia e Federico nel recupero di svariati anime. Appassionanti furono le visioni condivise di serie come Erased (miniserie molto carina sui viaggi nel tempo), Paranoia Agent (l’enigmatica serie di Satoshi Kon da rivedere assolutamente), Vinland Saga (abbandonata dopo una prima stagione con pochi alti e tanti bassi), Devilman: Crybaby (buona rivisitazione di Yuasa con tanti “picchi” anche se un po’ frettolosa) e, infine, la colossale Attack on Titan. Quest’ultima fu il massimo godimento per tutti e tre, perché come non mai entrammo in una narrazione episodica così lunga e al tempo stesso così emozionante e coinvolgente per via dei suoi numerosi misteri, della sua profondissima disamina sulla natura umana, della sua geniale allegoria sociopolitica del nostro mondo e, infine, delle sue scene iper dinamiche d’azione dal sapore fieramente epico e drammatico. Tutt’ora non conclusa da tutti e tre dato che vogliamo attendere il doppiaggio delle ultime 3 puntate da poco uscite, indubbiamente Attack on Titan è schizzata tra le prime posizioni delle nostre serie tv preferite di sempre, dimostrando al sottoscritto quanto un pregiudizio su un genere o su un certo tipo di opera audiovisiva possa nuocere tantissimo alla scoperta di vere e proprie perle come quella citata poc’anzi.
La (ri)scoperta dell’animazione giapponese a tutto tondo fu, quindi, fondamentale per riformulare il mio pensiero critico su tutto il mondo delle serie televisive, come fu fondamentale scoprire il cinema per comprendere meglio i punti di forza e i punti di debolezza delle serie tv, che ora più che mai guardano al cinema per imporsi come nuova mitopoiesi presso il grande pubblico sempre più disaffezionato dalla Settima Arte. Il confronto in rete su filmtv.it con utenti esperti ed appassionati di animazione giapponese a tutto tondo come Genga009 (Isaia) e Stanley42 (Lorenzo), inoltre, mi fece comprendere di quanto l’autorialità fosse massicciamente presente nelle serie tv animate giapponesi e interdipendente con il cinema animato stesso, in cui il confine fu spesso labile, tant’è che spesso le due arti spesso si mischiarono sinergicamente rendendosi quasi indistinguibili l’una dall’altra. Ne è un esempio lampante Cowboy Bebop che, sotto consiglio di Elia e dei miei due amici di filmtv, mi stregò così tanto da un punto di vista prettamente registico (basti vedere quel capolavoro di Ballad of Fallen Angels [1×05]), che portò sempre di più la mia attenzione ad analizzare il linguaggio cinematografico presente all’interno delle serie tv sia animate, sia live action.

evangelion serie tv

attack on titan serie tv

cowboy bebop serie tv

Cinema e Televisione sono dunque le due facce della stessa medaglia, due costanti nella mia vita che mi hanno permesso di conoscere e approfondire quel famoso “storytelling” declinato in forma audiovisiva. Soddisfando così una mia fuga dalla realtà che, inizialmente, da piccolo e da adolescente era soltanto un modo per sfuggire dalla noia della quotidianità. Ovvero quel quieto vivere noioso e robotico che rendeva tutto più grigio, tanto da spingere la mia giovane mente ad inventare storie, mondi e narrazioni alternativi per soddisfare i miei più intimi desideri di escapismo e curiosità. La mia sete di curiosità e di intrattenimento, per fortuna, col tempo è diventata anche una sana e vorace sete di conoscenza che alimenta una grandissima passione ormai inseparabile dal mio modus vivendi, ossia lo studio e la ricerca approfondita della quintessenza dell’arte del racconto in qualsiasi declinazione essa si presenti: cinema, serie tv, animazione, letteratura e via discorrendo. E involontariamente tutto ciò partì proprio da quel Rai Educational che mia madre mi impose di vedere in quella scatola quadrata quale fu la mia vecchia televisione, dove al suo interno albergarono quelle figure in movimento che mi portarono successivamente ad indagare l’origine di tutto ciò che vedevo, ossia le storie che amavo veder raccontate sul piccolo schermo. Squarciando il velo di Maya, grazie anche all’aiuto dei vari “Morpheus” che incontrai lungo la mia strada e che tuttora fanno parte della mia vita, ho imparato non solo a conoscere profondamente la bellezza di queste due arti, ma anche a usarle come strumento introspettivo per migliorare la mia esistenza, la mia vita, le mie relazioni sociali e, infine, a riflettere sotto un’altra lente interpretativa il mondo che mi circonda. Nella loro alterazione della realtà come l’uso del semplice montaggio, il cinema e le serie tv non sono però altro che un prodotto dell’umanità che riflette sulla realtà stessa e, in questo eterno paradosso, ci ho trovato il mio senso della vita, o almeno in parte. Ma è proprio quella “parte” che tutt’oggi anima e plasma gran parte del mio esistenzialismo e dunque il mio modus vivendi, perciò, cinema e serie tv hanno drasticamente cambiato la mia vita e anche leggermente quella dei miei amici, come quella uscita di gruppo per vedere in sala The End of Evangelion dopo aver fruito tutti in separata sede NGE. Forse, però, sarà proprio quella “banale” uscita al cinema per vedere il finale di una serie tv che resterà nelle loro memorie rispetto ai mille esami, alle centinaia di lezioni all’università, alle inquantificabili ore di lavoro e agli innumerevoli altri impegni che li attendono e li attenderanno per il resto della loro (nostra) vita. E cosa c’è di più poetico e toccante di poter rimembrare un attimo questi magici ricordi anche “formativi” e non solo “affettivi”, rispetto ai trilioni di terabyte di altrettanti ricordi caduti invece nel vorticoso vuoto della nostra vasta memoria, che selettivamente elimina la monotonia della nostra esistenza?

Ecco, dunque, cosa resta di questo mio quarto di secolo di serie tv. Una vita vissuta. Una vita che ha vissuto tante altre vite. Una sana, catartica e terapeutica condivisione di emozioni, pensieri e riflessioni con amici passati e presenti. Magiche serate in famiglia. Un nostalgico calderone di ricordi ed esperienze che hanno segnato la mia esistenza. Una riflessione su un medium che, pur nelle sue ataviche lacune, merita di essere esplorato e analizzato ancora. Quattro edizioni home video. Un’odissea che racchiude tante altre odissee. La sublimazione di una grande amicizia. Un trampolino di lancio per la scoperta della Settima Arte. E che scoperta travolgente. Così travolgente che merita un articolo e una logorrea a parte. 

serie tv home video

Bene, ora è veramente giunta l’ora di chiudere il cerchio come ogni buona serie tv dovrebbe fare. Ora quindi tocca a voi raccontarmi qualcosa. Qual è il vostro rapporto con le serie tv? Quali sono le vostre esperienze con il medium? Quali sono i vostri più cari ricordi legati alle serie tv? E se non ve n’è mai fregato niente delle serie tv, perché?

Proprietario e penna del sito "L'angolo di Gio", blog cinefilo dedicato alla Settima Arte e in parte alle serie tv. Dopo anni ad aver coltivato la propria passione per il Cinema, matura la passione per la scrittura che lo porta a recensire film non solo nei suoi canali social e nel suo blog, ma anche per il sito filmtv.it (ormai top user) e a collaborare per la prima volta con il sito d'animazione "Daelar Animation" gestito da Isaia Silvano. Nel tempo libero oltre a vedere e leggere tutto ciò che riguarda la Settima Arte senza escludere la frequentazione abituale della Sala, si informa, studia e legge saggi e video di Geopolitica (i tomi di Limes abbondano nelle sue librerie). Da sempre ha un sogno nel cassetto: scrivere un libro monografico sulle sorelle Wachowski, le sue registe preferite in assoluto.

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