chritopher nolan copertina
Cinema,  Retrospettiva

Retrospettiva Christopher Nolan

Tempo di lettura: 55 minuti

Christopher Nolan è di sicuro uno dei registi più amati e famosi del nostro tempo, tanto da surclassare i grandi nomi del passato, che ormai cominciano a svanire nell’immaginario collettivo con l’avanzare della contemporaneità, introiettata sempre di più sullo star-system, sui film-marchio e i franchise campioni di incassi. Questa grandissima popolarità la confermano, oltre gli strepitosi incassi miliardari dei suoi film e la critica sempre unanime nel promuovere le sue opere (almeno quella d’oltreoceano), anche la sua vastissima rete di fan sul Web che vengono chiamati ironicamente “nolaniani”. Quest’ultimi si fanno sentire a gran voce attraverso miliardi di video su YouTube ma, soprattutto, su tutti i siti dedicati al cinema come per esempio IMDb, in cui piazzano in quarta posizione Il Cavaliere Oscuro nella top 250 migliori film di sempre e nella seconda e terza posizione due suoi film (Il Cavaliere Oscuro e Inception) per numeri di voti superando tranquillamente la “modesta” cifra di due milioni. Questa grande fama di cui gode guadagnando sempre più proseliti nel pubblico generalista a ogni anno che passa, porta inevitabilmente anche all’effetto opposto, ovvero una sempre più crescente schiera di detrattori pronti a stroncare ogni suo film additandogli le peggio critiche.

immagine dei nolaniani, fan di nolan

seconda immagine dei nolaniani, fan di nolan

prima immagine degli anti-nolaniani

seconda img anti nolan

In occasione dell’uscita di Tenet, ho deciso così anch’io di dire la mia su questo regista molto discusso e, chiaramente, non mi colloco in nessuna fazione, anche perché è alquanto inutile entrare in tifoserie da stadio deprimenti e ridicole, che portano soltanto ad un impoverimento della discussione critica e cinematografica ma, soprattutto, ad un radicalismo nelle proprie opinioni che rende poco obiettiva poi la propria analisi su ogni singolo regista.

nolan filming

Christopher Nolan è un regista che personalmente apprezzo e di cui ho amato parecchi suoi film, soprattutto perché riesce sempre a realizzare blockbuster d’autore che uniscono sinergicamente sia l’intelletto che l’intrattenimento filmico, un pregio che ormai comincia a latitare nel cinema mainstream, in cui tutto ormai si abbandona alla caciara e all’ignoranza delle scene d’azione e degli effetti visivi, azzerando così il valore riflessivo intrinseco che una storia può trasmettere ad uno spettatore occasionale e non. Partendo dal cinema indipendente inglese, infatti, il regista londinese si è sempre contraddistinto per la sua particolare narrazione concentrata su svariati temi inerenti all’irrazionalità e alle contraddizioni dell’essere umano che, in un mondo apparente perfetto da un punto di vista razionalistico, ogni suo protagonista scoprirà, invece, tutte le sue imperfezioni crollando nella sua voglia di interpretare univocamente ciò che lo circonda, in quanto la realtà circostante spesso è sfuggente e indecifrabile. Non è un caso che Nolan racconti spesso storie non lineari nel tempo riflettendo sulle distorsioni spazio-temporali, sullo sdoppiamento dell’identità, su leggi scientifiche che regolano la nostra natura, sul contrasto tra sogno e realtà, sulla problematicità dei ruoli genitoriali e sulla costante ambiguità morale dell’essere umano. Tutte componenti chiaramente complesse e problematiche nell’interpretazione oggettiva della realtà, che il regista infatti inserisce in mondi freddi, apatici, algoritmici, crepuscolari insieme ai suoi personaggi che dovranno affrontare tutte queste variabili razionali e irrazionali in gioco, munendosi, di conseguenza, di un coraggio e di un dinamismo emotivo necessari per scardinare le opprimenti equazioni del sistema che li schiacciano, seguendo così la pura logica dell’irrazionalità emozionale, dettata sempre ed esclusivamente dalla loro irrinunciabile – e spesso folle – soggettività. E non sempre il risultato è un lieto fine.

the prestige scena diretto da nolan

La poetica del regista nella sua “freddezza” nel riprendere dilemmi amletici di portata esistenzialista, in realtà contiene una forte componente emotiva molto calorosa e profondamente umana nel rappresentare le varie sfaccettature dell’essere umano, che vengono enfatizzate dalla sua scrittura e dalla sua regia attraverso intrecci narrativi spesso abbastanza complessi per rendere al meglio lo stato confusionale di una lotta alla fine interiore con sé stessi. Anche nelle sue opere più commerciali, Nolan è sempre riuscito ad infondere la sua poetica plurisfaccettata e morbosamente attaccata al mezzo “tecnico” del Cinema, che per il regista britannico rappresenta un vero e proprio dogma imprescindibile per regalare uno straordinario spettacolo al suo pubblico, affidandosi spesso ad effetti speciali analogici e girando in pellicola tutti i suoi lungometraggi. L’attaccamento tecnico e “razionale” al complesso industriale della Settima Arte, lo rende di fatto un artista molto ambizioso nei suoi progetti audiovisivi, in cui cerca sempre di sperimentare nuove tecniche per “spettacolarizzare” il suo Cinema. Nelle sue opere migliori, dunque, ottiene risultati eccelsi in termini di drammaturgia quando l’intrattenimento filmico è di altissimo livello tra grande perizia tecnica e solida scrittura volta sviscerare la filosofia dei suoi personaggi, ma quando la “tecnica/forma” si sbilancia a sfavore della “scrittura/sostanza”, ecco che l’ambizione pionieristica nolaniana svilisce la stessa scrittura, che a quel punto diventa schiava di una messa in scena che si traduce automaticamente in un mero esercizio di stile, in cui i personaggi diventano mere pedine anonime di una storia inutilmente complicata.

dunkirk esercizio di stile di nolan

La maledizione del regista sta dunque nella sua eccessiva ambizione di risultare cervellotico e spettacolare anche quando non dovrebbe, rigettando così la semplicità di un soggetto per abbracciare una storia più complessa (o confusa?) e stratificata, senza però riuscire ad esaltarne completamente tutte le sue potenziali virtù tematiche e filosofiche, se non addirittura visive. La sua natura sempre più macchinosa e cerebrale nell’approcciare il mezzo cinematografico, concentrandosi così più sull’intreccio narrativo che all’effettiva drammaturgia della storia narrata, mi fa pensare ad una vera e propria radicalizzazione della sua poetica, votata sempre di più ad esaltare lo spettacolo visivo piuttosto che a raccontare una storia pregna di un vero significato, capace quindi di donare sia un abile gioco di prestigio cinematografico, sia una riflessione interiore capace di scuotere l’anima e la mente dello spettatore.

Il sospetto che mi sorge spontaneo è che forse la penna migliore – o comunque il giusto bilanciere tra forma e sostanza – sia proprio suo fratello Jonathan Nolan, che quando collabora in sede di sceneggiatura (Memento, The Prestige, Il Cavaliere Oscuro, Interstellar), regala infatti le opere che più ho apprezzato di Christopher Nolan, che guarda caso sono le più empatiche senza però perdere la loro complessità di fondo.

i fratelli nolan

Riassumendo, Christopher Nolan è di sicuro un regista con un grandissimo talento che regala un cinema d’intrattenimento sempre intellettualmente stimolante sia da vedere sia da “sentire”, che ha regalato almeno due capolavori alla Settima Arte e una forte influenza estetica al (post)moderno Cinema contemporaneo. Peccato che le sue eccessive ambizioni – comunque sperimentali e meritevoli di essere visionate in sala – mescolino a volte malamente, soprattutto negli ultimi anni, l’approccio analitico-tecnico con quello sensoriale-allegorico-drammaturgico, incagliandosi perciò in un limbo cinematografico in cui la drammaturgia fatica a restituire tutto il suo potenziale creativo, perdendosi in incastri narrativi spesso futili e destinati ad un pubblico “nerdoide” amante degli enigmi impossibili (quest’ultimi spesso campati in aria) su uno sfondo tecnico di primordine ma alla fin fine vuoto.

Ed è forse per questo motivo che sarà per sempre legato al cinema commerciale piuttosto che a quello d’essai, in quanto morbosamente legato ad uno sperimentalismo visivo e narrativo che richiede ingenti capitali che, però, produce il paradosso di dover spiegare poi ogni minima cosa al grande pubblico, ossia il suo principale target di riferimento che gli consente di sopravvivere come regista. Insomma, un’eterna maledizione autoriale/artistica – o benedizione se si guarda al suo portafoglio – che forse spiega come mai ritornare al livello dei suoi massimi capolavori – Memento e The Prestige – sia ormai quasi impossibile, in quanto opere concettualmente e fortemente indipendenti a partire dal budget, che impone a qualsiasi regista di dover realizzare un piccolo prestigio, ossia quel colpo di genio necessario per arrivare all’olimpo tanto agognato dei capolavori della Settima Arte. Staremo a vedere, a partire dal recente Oppenheimer, in cui forse forma e sostanza stanno finalmente ritornando sinergicamente unite.

nolan commerciale

Concludo l’introduzione alla mia retrospettiva su Christopher Nolan elencandovi la mia citazione preferita, la mia scena preferita e la mia colonna preferita all’interno della sua filmografia, oltre alle ovvie recensioni sui suoi singoli film ordinati per data di uscita. 

Come sempre vi invito a fine articolo di dire la vostra nell’area commenti e vi auguro una buona ed appassionante lettura su un regista molto amato e odiato, ma che di fatto è il più influente degli ultimi tempi e dunque meritava da parte mia una disamina attenta e per niente faziosa.


La mia scena preferita:



La mia colonna sonora preferita:



La mia citazione preferita:

Incipit di The Prestige…

Borden [voce fuori campo]: Osserva attentamente.
Cutter [voce fuori campo]: Ogni numero di magia è composto da tre parti o atti. La prima parte è chiamata “la promessa”. L’illusionista vi mostra qualcosa di ordinario: un mazzo di carte, un uccellino o un uomo. Vi mostra questo oggetto. Magari vi chiede di ispezionarlo, di controllare che sia davvero reale… sì, inalterato, normale. Ma ovviamente… è probabile che non lo sia. […] Il secondo atto è chiamato “la svolta”. L’illusionista prende quel qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario. Ora voi state cercando il segreto… ma non lo troverete, perché in realtà non state davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati. Ma ancora non applaudite. Perché far sparire qualcosa non è sufficiente; bisogna anche farla riapparire. Ecco perché ogni numero di magia ha un terzo atto, la parte più ardua, la parte che chiamiamo “il prestigio”.


Following (1998) di Christopher Nolan

following poster

Following è l’opera prima dell’ormai famosissimo cineasta britannico Christopher Nolan, che già nel 1998 con un bassissimo budget dimostrava tutto il suo grande talento nel cinema indipendente inglese prima di sbancare i botteghini a Hollywood con la sua tanto acclamata trilogia sul Cavaliere Oscuro.
Quest’opera prima ormai dimenticata anche dai suoi più grandi ammiratori, conserva quindi tutti i semi della sua poetica e i tratti distintivi della sua superba regia che poi farà sbocciare col tempo emigrando “artisticamente” negli Stati Uniti. In particolare per questa pellicola, Nolan si improvvisa anche sceneggiatore (ruolo che poi conserverà sempre insieme – qualche volta – con suo fratello Jonathan Nolan), montatore, produttore e direttore della fotografia. Ruoli spesso necessari per i registi alle prese con le loro opere prime, che richiedono come sempre una compressione del budget e una praticità efficace nel realizzare il tutto nei tempi prestabiliti.

La sfida viene dunque accettata con grande vigore dall’ambizioso regista britannico, che porta a casa un noir metropolitano a scatole cinesi virando sul finale verso il thriller puro, offrendo dunque non solo un mero intrattenimento allo spettatore, ma anche una riflessione stimolante sul mondo in cui immerge i suoi personaggi e lavorando parecchio sul linguaggio cinematografico. La poetica di Nolan è dunque di per sé difficile da inquadrare, in quanto sottile e morbosamente attaccata al mezzo cinematografico, che costituisce perciò il fulcro della sua disamina nello sviscerare le imperfezioni dei suoi personaggi spesso immersi in mondi apparentemente perfetti, ma che in realtà sono frutto di percezioni soggettive dell’uomo condannate perciò al totale sfaldamento. Per sottolineare quindi lo stato confusionale e costantemente imperfetto dell’essere umano, Nolan gioca con l’artifizio tecnico, puro e analogico della Settima Arte per costruire una narrazione non lineare per il suo protagonista noir, che in un fantastico bianco e nero si ritrova completamente spaesato e manipolato dalla cruda realtà che lo circonda.

L’incredibile gioco di prestigio che riesce a creare Nolan attraverso una regia asciutta e un montaggio intricato nel gestire i vari flashback e flashforward, è davvero sofisticato ma soprattutto funzionale alla drammaturgia della pellicola che ha chiaro sin dall’inizio che sarà il “come” a dare spessore al “cosa”. Il puzzle di eventi che si susseguono nel corso del film servono dunque a completare un discorso drammatico e schizoide sul protagonista antieroe, che nella sua ossessiva ricerca della creatività in una vita vuota e precaria, finirà col ottenere tutto il contrario e pagando un prezzo salatissimo in quanto ingabbiato in un triplo gioco criminale e infimo, in una realtà metropolitana chiaramente votata al cinismo e all’opportunismo. Ironicamente il protagonista scrittore in crisi creativa finirà con l’avere tra le mani finalmente una storia da raccontare, ma essendosi tramutato anch’esso in un ladro gustandosi i piaceri del lusso di questa sua nuova professione insieme al suo amico luciferino, non può che trovare nei suoi peccati la giusta punizione.

Insomma, quest’opera prima di Nolan noir-thriller risulta chiaramente convincente e con una precisa scelta stilistica che poi si perfezionerà con maggiore risalto nell’opera successiva che sarà Memento, confermando con questa prima prova una naturale genuinità per la sperimentazione nel panorama della Settima Arte. Un’amorevole predisposizione tecnica che poi si fonderà con la sua sottile poetica spesso invisibile agli occhi dei cinefili più intransigenti, che indubbiamente può far sorgere dei dibattiti, ma che a mio parere determina in sostanza l’autorialità blockbuster di Christopher Nolan.

Following racchiude dunque tutte le “perfezioni” e imperfezioni di un autore mainstream capace ancora di attrarre il grande pubblico e di far discutere, avendo dalla sua una precisa idea di Cinema che, nel bene e nel male, ci ha regalato opere cinematografiche in grado di unire sempre l’intrattenimento con l’intelletto. Magari con qualche pretenziosità di troppo, magari con qualche budget di troppo, magari con qualche film di troppo. Ma questa è un’altra storia, per ora mi limito a Following che merita una riscoperta anche solo per sottolineare come un film a bassissimo costo è capace altrettanto di ottenere un grande successo nonostante i numerosi limiti tecnici.

Voto 8+

Memento (2000) di Christopher Nolan

memento poster

Dopo l’ottimo esordio con the Following, Nolan sbarca ad Hollywood con il suo film più complesso e genuino della sua carriera, che grazie anche ad un budget più consistente (ma non enorme come in futuro), riesce a sperimentare maggiormente col mezzo cinematografico ampliando le tematiche presenti già nell’opera prima e perfezionando ancora di più il suo naturale talento per la regia.

Memento, che in latino significa letteralmente “ricordati”, narra le vicende di Leonard, un uomo che soffre di amnesia anterograda, ovvero un disturbo psichico che affligge la memoria a breve termine cancellando qualsiasi ricordo dopo ogni 15 minuti. Il protagonista per ricordarsi tutto ciò che gli capita intorno, deve quindi scriverselo su dei foglietti, fotografare chi incontra con una polaroid scrivendoci sopra una breve descrizione e addirittura tatuarselo sul corpo se è un ricordo particolarmente importante da memorizzare.
Leonard, chiaramente disturbato, deve cercare in questo frammentato delirio mentale di vendicare la morte di sua moglie stuprata e assassinata anni fa da un killer che non è mai stato rintracciato dalla polizia. Leonard si improvvisa perciò detective grazie al suo passato da investigatore in una compagnia di assicurazioni, per scovare e giustiziare una volta per tutte l’assassino che è anche la causa del suo trauma cerebrale. 
L’ossessiva ricerca dell’antieroe però, non trova una lieta conclusione in quanto affetto dalle costanti amnesie che lo pongono in una condizione instabile facilmente manipolabile da tutti i personaggi che incontrerà, segnando così il ripetersi del suo tragico destino intrappolato in un circolo vizioso senza fine immerso in un mondo crepuscolare e cinico.

La struttura del film per catturare questa follia mnemonica del protagonista, segue infatti una a-linearità fissata principalmente su due piani temporali, uno a colori e uno in bianco e nero. Questi stessi piani temporali però, sono a loro volta stravolti all’interno della narrazione perché la sequenza temporale a colori è montata cronologicamente al contrario dove l’inizio del film rappresenta dunque la sua relativa fine. La sequenza in bianco e nero invece, segue una linearità precisa ma indefinita nel tempo fino all’escalation nel finale che sarà rivelatore dell’ingegnoso meccanismo narrativo creato da Nolan. All’interno delle stesse sequenze sia in bianco e nero sia a colori vengono inoltre inseriti dei flashback e flashforward esterni alla linea temporale del film tanto da risultare per certi versi dei veri e propri frammenti del subconscio del protagonista.

La sperimentazione che Nolan attua in Memento è dunque un’avanguardia visiva veramente complessa e stratificata che merita più e più revisioni per essere compresa a pieno e che porta avanti già il montaggio a scatole cinesi di Following portandolo però ad un livello superiore tanto da superare lo stesso concetto di flashback e flashforward.
Questa precisa scelta stilistica del regista oltre che ad essere un genuino gioco di prestigio attraverso il mezzo cinematografico, non lo si può ascrivere ad un mero esercizio di stile perché la tecnica che si incastra con la poetica è un classico del pionierismo di Nolan, che infatti esplica perfettamente la drammaturgia di Memento attraverso la sua grande messa in scena applicata ad un montaggio certosino volutamente criptico e frammentato.

L’immersione che ne deriva infatti pone lo spettatore in una condizione assolutamente empatica nei confronti della mente del protagonista, che essendo ignaro di ogni minimo evento passato a parte qualche indizio fisico che il protagonista conserva nella sua giacca e nella sua stanza d’albergo, con l’avanzare della trama verrà catapultato nella follia anarchica della narrazione che comporrà pian piano tutti i pezzi del puzzle per risolvere il concitato enigma a scatole cinesi.

Lo scavo psicologico che attua Nolan nella mente umana è dunque magistrale per la sua accuratezza nel descrivere le insicurezze dell’uomo e delle certezze che artificiosamente vuole ricostruire in un mondo apparentemente perfetto. 
Leonard infatti da tragico antieroe noir si ritroverà a confrontarsi con dei personaggi apparentemente benevoli all’inizio del film, ma che col susseguirsi della narrazione schizoide muteranno forma fino a diventare dei personaggi squallidi e arrivisti. Inconsapevolmente o consapevolmente saranno poi il motore della storia del protagonista, che intrappolato in un’illusione romantica che lui stesso ha creato, acquisirà incredibilmente quella autoconsapevolezza brutale nel finale-inizio che poi sarà la chiave interpretativa necessaria per sciogliere i nodi tessuti con grande perizia dal regista britannico.

La sostanza si unisce dunque perfettamente alla forma, dove Nolan a partire da Memento comincia a sviluppare una poetica volta all’esplorazione delle contraddizioni dell’uomo nei mondi in cui è calato sfruttando a pieno la lente d’ingrandimento del Cinema, osservando dunque dall’alto gli esseri umani come se fossero delle pedine in un gioco più grande di loro. 
Questa perfezione asfissiante ovviamente necessita una rottura data delle imperfezioni dell’uomo, che in Memento vengono rappresentate da Leonard, che dal suo spaesamento nichilista nella società contemporanea decide di recidere la sua stessa illusione che lo teneva in vita per ultimare una volta per tutte i ripetuti cicli viziosi che non portavano ad altro che ad un sistema corrotto e insostenibile.
L’io narrante del protagonista riesce dunque a separare per un momento l’io folle da quello razionale, ritrovando finalmente quel breve momento di lucidità necessaria per fermare una volta per tutte l’anarchia mentale che è diventata ormai una vera e propria maledizione. Sperando poi in quella precisa scelta efferata di trovare la pace interiore necessaria per interiorizzare definitivamente il ricordo drammatico dato dalla morte della moglie.

Insomma, Nolan con Memento realizza una pellicola veramente pregna di sottotesti e di sublimi riflessioni che meritano come sempre una partecipazione intellettuale oltre che emotiva da parte dello spettatore. 
La tematica dei ricordi legati al subconscio, lo sdoppiamento dell’identità, la distorsione temporale, il differenza tra realtà e sogno, l’ambiguità della moralità e l’imperfezione umana che potrebbe portare anche ricchezza all’uomo, sono tutte tematiche nolaniane che poi verranno riprese nelle successive pellicole, ma che mai ritroveranno quell’asciuttezza e genuinità di quest’opera seconda, che certifica comunque un amore verso il sistema Cinema che è l’unico mezzo secondo il regista per stimolare lo stupore e l’amore dello spettatore verso la Settima Arte.

Memento forse rappresenta il vero capolavoro di Nolan insieme a The Prestige, proprio per questa sua naturale spontaneità nel sperimentare narrazioni anticonvenzionali secondo una precisa e chiara drammaturgia che non mira solo a sorprendere, ma anche a raccontare una storia coraggiosa capace veramente di colpire nel segno andando oltre il mero gusto ed intrattenimento filmico dei blockbuster destinati per il grande pubblico.

Memento rappresenta dunque uno dei momenti più alti nella filmografia di Nolan, che oltre a confermare il suo enorme talento anche con budget medio-bassi, poteva anche far presagire ad una futura carriera diversa da quella che poi oggi tutti noi ben conosciamo.

Voto 9.5

Insomnia (2002) di Christopher Nolan

insomnia poster

Dopo il geniale Memento tutti si sarebbero aspettati da Nolan un altro grande film originale a medio budget, e invece incredibilmente decide di dirigere su commissione un remake di un film norvegese chiamato Insomnia
Sarà forse stato il fiuto di un budget da 46 milioni di dollari? Sarà stato il vil denaro a corrompere la vena artistica del regista? O semplicemente ha colto senza troppi pensieri l’opportunità di girare un film marchetta soltanto per poter entrare ancor di più nel sistema hollywoodiano abbandonando il settore indipendente?
Sta di fatto che questa prova del nove ha consentito ai dirigenti della Warner di osservare all’opera il regista con un budget più consistente, che portando a casa un risultato più che decoroso ai botteghini, ha poi convinto la famosa casa di produzione hollywoodiana di offrirgli su un piatto d’argento l’opportunità di dirigere l’ormai nota trilogia sul Cavaliere Oscuro.

Insomnia rappresenta perciò un film di transizione e di fatto una macchia dolente all’interno della filmografia del regista britannico, che non firma nemmeno la sceneggiatura e il soggetto, elementi che di solito lui cura personalmente anche insieme al fratello.
Il film su commissione si abbandona perciò totalmente alla regia di Nolan secondo i ritmi della produzione, infatti i tratti distintivi del regista faticano ad emergere anche se il tutto viene girato con una grande tecnica e con un montaggio a volte riconducibile ad alcuni momenti di Memento in cui emergono con prepotenza i flashback nella mente del protagonista.

Il thriller ambientato in questa località sperduta immersa nella nebbia, ma eccessivamente solare per via della sua collocazione artica, è indubbiamente l’elemento che più ha interessato il regista nell’inserire le vicende dei suoi protagonisti ovvero il detective corrotto Will Dormer e l’ambiguo serial killer Walter Finch.
Il mondo che gli crea attorno Nolan è indubbiamente il terzo protagonista della vicenda che porterà i due estremi ad incontrarsi e a confondersi in questa località artica immersa in una nebbia ambigua come la morale di entrambi i protagonisti, dove lo stress psicologico del loro scontro morboso è sottolineato dalla costante solarità che provoca insonnia e disperazione al poliziotto corrotto e al criminale apparentemente pacato, denudandosi così dei loro peccati fino allo scoccare della loro morte.
Lo scontro fatale che le due facce della stessa medaglia avviano durante il corso della narrazione è dunque l’elemento più intrigante che traspare in questo thriller modesto anche grazie alle interpretazioni di due grandi star come Al Pacino nel ruolo del poliziotto con la coscienza sporca affetto da insonnia e Robin Williams nel ruolo di un apparente serial killer pacato e composto.

Nolan pone dunque la cornice finale a queste due grandi interpretazioni attraverso una trama lineare funzionale alla vendibilità del progetto filmico, consegnando dunque un thriller di riporto anche piuttosto buonista sul finale a differenza del film originale norvegese, allineandosi dunque alla retorica americana nel idolatrare a tutti i costi le forze dell’ordine anche quando queste ultime sbagliano clamorosamente.

In conclusione, il risultato finale non è ovviamente da buttare visto che è girato con una grande tecnica e con dalla sua una sceneggiatura di base comunque apprezzabile sul piano teorico, ma che all’interno della filmografia di Nolan perde il suo senso di esistere in quanto svuotata dai tratti distintivi della poetica del regista britannico. E che nel suo essere un remake non stravolge neanche minimamente l’originale come invece son riusciti a fare grandi autori del passato.

Sostanzialmente un buon cavallo di Troia per sfondare in un progetto ancora più commerciale ma che sarà indubbiamente più curato e amato dal regista, ma che da Insomnia in poi si rivelerà per quello vorrà diventare realmente: un grande autore di blockbuster sperimentali stipendiato a vita dalla Warner Bros.

Voto 7

Batman Begins (2005) di Christopher Nolan

poster di batman begins

Rachel, non è tanto chi sono, quanto quello che faccio che mi qualifica.

Bruce Wayne/Batman

Dopo il banco di prova di Insomnia che conferma la capacità di Nolan di saper gestire anche film con budget abbastanza consistenti, la Warner gli offre su un piatto d’argento la possibilità di dirigere il nuovo reboot su Batman iniziando così un forte sodalizio tra la major e il regista britannico, che a tutti gli effetti si rivelerà fruttifero per entrambi permettendo in seguito a Nolan di avere quasi carta bianca sui suoi futuri progetti più personali e sentiti.

Per Batman Begins, a differenza del marchettone Insomnia, Nolan piega l’anima commerciale del progetto batmaniano secondo la sua sensibilità artistica e autoriale discostandosi dalla precedenti trasposizioni cinematografiche (soprattutto quelle scellerate di Joel Schumacher), riportando il mito del noto cavaliere oscuro in una dimensione più epica, terrena, realistica, introspettiva, meno fumettosa e squisitamente thriller/noir.

La rilettura postmoderna ambientata nei nostri tempi che attua Nolan nei confronti del noto supereroe DC, serve a dare maggior spessore e un’aura più seriosa alle atmosfere del cinefumetto, conferendogli dunque una connotazione più adulta e matura nell’analizzare la condizione antropologica del nostro tempo.
Batman diventa dunque un pretesto, un simbolo, una metafora necessaria per sviluppare un discorso più ampio della semplice scazzottata tra buoni e cattivi, che infatti trova perfetta sinergia col mondo crepuscolare che Nolan gli costruisce intorno ovvero la decadente e corrotta Gotham City e l’esotica e oscura località himalayana sede della Setta delle ombre guidata dal potente e carismatico leader Ra’s Al Ghul.

Il film di origini quindi si divide principalmente in due parti collocate in località geografiche completamente opposte, ma in realtà complementari quando nell’ultimo atto dovranno scontrarsi per la resa dei conti finale.

La prima parte del film si focalizza quindi sull’origine del codice morale di Batman alias Bruce Wayne, sfruttando il montaggio non lineare distribuito su più linee temporali per enfatizzare gli eventi drammatici fondativi per la genesi del supereroe senza superpoteri tra paura, rabbia, dolore, vendetta e una sete irrefrenabile di giustizia. Emozioni e sensazioni che vengono ben delineate anche grazie alla particolare messa in scena di Nolan che tra simbologie e location mozzafiato, riesce ad incastrare perfettamente i flashback di Bruce Wayne con il meditativo e duro addestramento di Ra’s Al Ghul, quest’ultimo mentore e figura paterna necessaria per lo sviluppo psicologico, morale e spirituale di Batman, che gli insegnerà le vie dell’oscurità, della teatralità e dell’inganno per volgere l’odio per i criminali in una virtù inscalfibile e metafisica.

L’introspezione che ne esce da questo interessante addestramento sia fisico che spirituale, dona finalmente la giusta epica e dignità alla mitologia dell’uomo pipistrello, che lo si potrebbe collocare tranquillamente nei più bei addestramenti della Storia del Cinema tra allievo e maestro come quello tra Luke e Yoda, Neo e Morpheus, Beatrix Kiddo e Pai Mei e pochi altri entrati ormai nell’immaginario collettivo.
L’allenamento psicofisico immerso in questo ambiente esotico e mistico non è però sinonimo di unione e fratellanza, infatti sarà il fulcro di un eterno dilemma morale che sarà fondamentale per tutto lo sviluppo della trilogia, ossia la salvezza di Gotham City o la sua totale condanna a morte.
Speranza e disperazione sono dunque gli stati d’animo che possono riassumere al meglio il duello eterno tra bene e male, ma che per tutta la trilogia tenderanno verso un’ambiguità morale lancinante e contraddittoria proprio come la città di Gotham.
Ra’s Al Ghul vuole infatti radere al suolo la metropoli per la sua natura luciferina fagogitata ormai da decenni dalla malavita e dalla corruzione che non può più professarsi faro della civiltà occidentale, di conseguenza per il bene dell’umanità bisognerebbe epurarla dal male come tante altre città gloriose del passato cadute poi in disgrazia per colpa dei vizi e dei peccati dell’uomo.
In antitesi a questa logica malthusiana e darwinista, si contrappone la speranzosa e lucente moralità di Bruce Wayne, che invece ripone ancora fiducia nelle brave persone della città e nella loro lotta al crimine attraverso le vie della legalità, ma che necessitano di un giustiziere al di sopra di ogni legge perché questo possa incarnare un simbolo potente e speranzoso che ispiri la gente comune ad agire contro i soprusi delle cosche mafiose che dominano tutta la città.

Nella seconda parte del film infatti, entrano in gioco queste suggestive logiche contrapposte dove Nolan le inserisce egregiamente in un universo metropolitano con tinte noir molto marcate dove la decadenza, la sporcizia, la povertà, la crisi economica, la corruzione, la criminalità, le ingiustizie, la violenza sono all’ordine del giorno e plasmano il complesso ecosistema urbano di una società occidentale alla deriva e sull’orlo del baratro.
In questo scenario degradante e molto fedele alla nostra realtà, il miliardario Bruce Wayne rinato dopo il suo viaggio spirituale e marziale, si inserisce perfettamente come benefattore e beniamino playboy della metropoli, ricucendo le fratture provocate da anni di strapotere della malavita seguendo l’esempio filantropico dei suoi genitori, mentre di notte può gettare via la sua maschera ironica e carismatica per dare sfogo alla sua vera natura ovvero quella di un uomo introverso votato nella sua ossessiva crociata contro la criminalità di Gotham, seguendo però un codice morale nobile, incorruttibile, tenace, ferreo e votato ad incutere paura e timore ai criminali di tutta la città.

In questa sue folli avventure notturne non può che originarsi uno stress psicologico non da poco conto, infatti subentra nel corso della seconda parte della pellicola l’altra figura paterna necessaria per bilanciare l’oscurità del crociato incappucciato, ovvero quella adottiva del fedele maggiordomo Alfred, voce della coscienza e braccio destro del protagonista fondamentale per tenere viva la lucidità e l’umanità dei due alter ego, oltre che ad aiutarli nelle loro indagini sia diurne che notturne.
Le figure paterne assumono dunque un significato molto importante all’interno della trilogia su cui il regista britannico costruisce un discorso molto profondo in quanto fondative per l’evoluzione del complesso di Bruce, sottolineando tutte le loro virtù e le loro problematicità per l’evolversi degli eventi che poi porteranno Batman stesso a diventare padre, custode, protettore della città di Gotham in cui i suoi cittadini diventeranno per lui formalmente i suoi figli adottivi da tutelare ed educare contro il male incombente della criminalità. 
Le complessità genitoriali verranno successivamente riprese anche in The Prestige, Inception e Interstellar che infatti costituiscono una componente emotiva e drammaturgica fondamentale per la risoluzione degli eventi, immersi quest’ultimi come sempre in un mondo freddo, razionale, ed opprimente.
La figura che assume Rachel, amica fidata ed interesse romantico di Bruce, costituisce dunque in questo ambiente cittadino cupo e decadente, il giusto riscatto sociale per il tormentato supereroe notturno desideroso comunque di vivere una vita romantica e felice con la sua presumibile anima gemella, ma che purtroppo non può ottenere per via del sacrificio di indossare una maschera che gli nega ogni possibile legame sentimentale, accettando così il suo ruolo di madrina di Gotham in quanto faro di una giustizia pura e scevra dall’oscurità giustizialista del cavaliere oscuro.

L’introspezione che viene riservata ad ogni membro del cast è dunque notevole e piena di significati che servono per delineare al meglio il nuovo corso del nuovo universo batmaniano immerso in una narrazione noir/thriller introspettiva ed investigativa atipiche per il cinefumetto, costruendo così quelle famose atmosfere dark che poi verranno scimmiottate malamente in futuro da altri prodotti DC che ovviamente non comprenderanno la costruzione teorica nolaniana votata chiaramente alla contaminazione dei generi e ad un rilettura cinematografica e non dogmatica del fumetto.

Le uniche pecche di questo primo capitolo, che è di fatto una splendida avventura supereroistica in chiave similmente realistica, a mio avviso è imputabile alla gestione dei due villain che nonostante siano entrambi ben caratterizzati, non spiccano di una particolare spettacolarità e letalità all’interno della pellicola, dove chiaramente lo Spaventapasseri è messo in secondo piano in favore di Ra’s Al Ghul, quando in realtà avrebbe dovuto ricoprire un ruolo primario per le sue incredibili potenzialità nel testare le paure di Batman grazie ai suoi gas letali che provocano allucinazioni traumatizzanti alle vittime esposte ai suoi diabolici marchingegni gassosi.
Il noto nemico numero due dell’uomo pipistrello viene dunque relegato ad un mero ingranaggio all’interno del piano diabolico dello spietato leader della Setta delle ombre, ritornando poi come cameo fisso per i prossimi due capitoli ma in ruoli di minore importanza.
La centralità di Ra’s al ghul rimane comunque filosoficamente coerente allo spirito di Batman Begins e funzionale ad avviare un discorso nel primo capitolo per poi concluderlo indirettamente nel terzo pagando il peso di essere meno “attrattivo” rispetto ai prossimi villain che verranno, ma ugualmente coerente per sfidare lo spirito e la paura del suo ex allievo, che alla fine lo batterà grazie alla sua forza di volontà emancipandosi dall’arroganza del maestro e diventando un nuovo simbolo di speranza per combattere il male di Gotham dalle forze oscurantiste votate al caos e alla distruzione.

Insomma, Christopher Nolan compie un piccolo miracolo da un’operazione palesemente commerciale, riuscendo ad imporre la sua visione autoriale sul genere cinefumettistico cambiandolo drasticamente nella sua monotona semplicità e discostandosi parecchio dalle versioni precedenti batmaniane, sottolineando però un senso di continuità/discontinuità con il titolo dell’ultimo capitolo burtoniano “Batman returns” che diventa in questo fresco e appassionante reboot “Batman Begins”, ovvero un nuovo inizio non solo per una nuova trasposizione autoriale del cavaliere oscuro, ma anche per il filone cinecomic che nei primi anni 2000 vide il suo massimo splendore cinematografico con la trinità Raimi-Singer-Nolan

Un periodo che ormai non ritornerà più e che si fa sempre più lontano, ed è per questo che mi sento di premiare lo sforzo artistico di queste produzioni milionarie che sono riuscite a coniugare l’intrattenimento puro con una vena autoriale personale e mai banale.

Voto 9-

The Prestige (2006) di Christopher Nolan

the prestige poster

Incredibilmente dopo il grande successo di Batman Begins, Nolan decide di buttarsi su un progetto più personale insieme alla Warner basato su un romanzo di fantascienza di Christopher Priest
Costato per assurdo meno del marchettone Insomnia e scritto insieme al fratello Jonathan, Christopher Nolan realizza una delle sue opere più complete e mature, dimostrando tutto il suo amore per la Settima Arte e l’illusione della stessa, costruendo quindi sorprendentemente un’opera metacinematografica senza citare esplicitamente il Cinema e soprattutto riflettendo sul ruolo dell’artista nell’approccio alla sua stessa Arte attraverso un gioco di prestigio talmente raffinato da donare il titolo al film.

La storia si focalizza su due giovani illusionisti di Londra sul finire dell’Ottocento, Alfred Borden (Christian Bale) e Robert Angier (Hugh Jackman), entrambi principianti ma desiderosi di un’ambiziosa carriera da illusionisti professionisti. Partendo da gavette, un giorno in uno spettacolo di magia muore la moglie di Angier per colpa di un incidente di scena, gettando nella miseria e nella disperazione il giovane illusionista, dando tutta la colpa del tragico accaduto al suo collega Borden.
Da questo episodio in poi nascerà la rivalità tra i due ex colleghi dove entrambi cercheranno di realizzare l’illusione migliore, sfidandosi nei teatri della città non solo creativamente parlando, ma anche fisicamente, sabotando l’uno lo spettacolo dell’altro con non pochi incidenti che li segneranno per sempre.
La svolta avviene quando Borden riesce a compiere il suo trucco che stava progettando da una vita ossia “Il trasporto umano”, in cui si teletrasporta magicamente da una porta chiusa all’altra. Angier chiaramente ossessionato nel voler scoprire il trucco del suo rivale, si rifà sul suo ingénieur Mr. Cutter per copiare il trucco e renderlo commercialmente più sofisticato rispetto agli iniziali spettacoli “umili” del suo rivale, avvalendosi anche della sua nuova assistente di scena ed amante dicendole di infiltrarsi negli spettacoli di Borden.
Ha inizio da questa ossessione per “Il trasporto umano” una concorrenza spietata e morbosa tra i due illusionisti ottocenteschi, che pur di prevalere l’uno sull’altro con le loro illusioni, andranno oltre i loro limiti “terreni” sacrificando senza troppi scrupoli tutti coloro che li aiutano e li amano, il tutto e per tutto in nome dell’arte dell’illusione e della magia.

Il regista per costruire tutta l’affascinante impalcatura di The Prestige, ritorna ai fasti di Memento nel gestire una narrazione non lineare mescolata tra eventi del passato, del presente e del futuro. Questa volta però, adotta uno stile completamente differente per sottolineare i tre elementi essenziali alla base di ogni prestigiatore che poi saranno effettivamente i tre atti del film: la promessa, la svolta e il prestigio.
Basandosi su questa struttura teorica Nolan costruisce come un illusionista l’appassionante e viscerale duello tra i due illusionisti immersi in questa straordinaria ambientazione tardo ottocentesca a Londra, città natia del cineasta che con grande cura e dettaglio descrive perfettamente il suo periodo più glorioso che l’ha contraddistinta rispetto al resto del mondo grazie alle sue invenzioni avanguardiste realizzate da artisti e scienziati straordinari in grado di saper sorprendere veramente la gente dell’epoca.

L’affascinante discorso metacinematografico e meta artistico della pellicola parte dunque tutto da questo assunto, in cui il regista inserisce queste due pedine ottocentesche in un discorso perfettamente contemporaneo dimostrando come gli spettacoli teatrali degli illusionisti non fossero altro che lo spettacolo che noi oggi tanto amiamo al Cinema. La collocazione storica è poi emblematica a sottolineare questa similitudine, infatti a fine Ottocento sarebbe poi nato il Cinema che con l’avanzare dei secoli avrebbe preso il sopravvento sullo spettacolo popolare. 
Allo stesso tempo però, Nolan ricerca un ritorno alla classicità analogica del passato per mostrare al pubblico contemporaneo la spettacolarità intrinseca della Settima Arte che è anche composta da geniali artifizi industriali, ma anche da artisti appassionati e ossessionati dallo loro stessa Arte che creano.

Entra in gioco dunque uno degli elementi più interessanti del lungometraggio ovvero il discorso sull’ossessione del processo artistico che rientra perfettamente nelle corde del regista britannico e che scolpisce magnificamente attraverso i due protagonisti del lungometraggio a colpi di illusione.
Il conflitto tra Alfred Borden e Robert Angier rappresenta dunque il dilemma interiore del regista che nel primo vede l’anima più industriosa incapace di vendersi nella sua passione artistica, mentre nel secondo invece vede l’anima più votata verso lo spettacolo e l’impossibile. 
Entrambe sono le facce della stessa medaglia che nella loro sfrenata passione e competizione arrivano addirittura a superare le normali barriere “umane” per raggiungere il trucco perfetto, il prestigio definitivo per immortalarsi nella Storia, la fama mondiale che li consacrerà agli occhi del pubblico. Questo sfrenato arrivismo intriso di una vana gloria è ovviamente uno degli elementi che porterà ad entrambi gli artisti a diventare schiavi della loro stessa Arte e a perdere tutto ciò che hanno di più caro.
Il ruolo della donna all’interno del film assume un ruolo fondamentale per bilanciare questa mascolinità tossica autodistruttiva piena di segreti, che se assecondata troverà amore e comprensione, ma se violata nella sua intimità artistica troverà soltanto uno sconforto impossibile da razionalizzare per la brutalità dei segreti necessari per continuare il mestiere di illusionista.
La critica all’edonismo è dunque imperante nel discorso di Nolan dove mostra come una concorrenza spietata in qualsiasi campo artistico-scientifico possa portare all’annichilimento stesso dell’individuo come clonare sé stessi per poi ammazzarsi continuamente nel caso di Angier oppure sfruttare il proprio gemello per eseguire illusioni perfette scambiando anche la propria vita privata nel caso di Borden.
Il parallelismo tra la rivalità dei due illusionisti e quello tra Nikola Tesla e Thomas Edison all’interno di The Prestige è un ulteriore approfondimento storiografico messo in secondo piano che però acquisisce spessore all’interno della drammaturgia del film, introducendo difatti l’elemento della genitorialità problematica nella poetica nolaniana che verrà poi ripresa anche in Inception, Interstellar e per tutta la trilogia del Cavaliere Oscuro
La tipologia di genitorialità problematica che traspare in The Prestige è di natura chiaramente artistica dove nonostante i due prestigiatori si autodistruggano quasi in un esistenzialismo nichilistico, traspare sin dalla prima inquadratura il loro amore per le illusioni che creano che sono le uniche figlie che effettivamente hanno avuto a cuore, ma che indubbiamente gli si sono rivolte contro come il marchingegno di Tesla per clonare e teletrasportare, che a quel punto però supera l’illusione stessa e diventa una vera e propria magia. La stessa pericolosa paternità dell’orribile marchingegno viene infatti negata e ripudiata dallo stesso Tesla, che è conscio ormai di essere stato sì un genio, ma forse anche un mostro e schiavo delle sue stesse creazioni, proprio come i due rivali illusionisti.La tematica del doppio presente più a livello psichico in Memento, in The Prestige viene palesato letteralmente seguendo comunque la riflessione dell’io razionale e dell’io folle che guidano costantemente l’uomo alla ricerca di una perfezione assoluta in un mondo apparentemente perfetto, ma che crolla nello svelarsi del prestigio finale che riporta ad una condizione più terrena la catarsi finale dopo le ingegnose macchinazioni dei due illusionisti, che eliminandosi a vicenda attraverso i loro “doppi”, confermano nuovamente la costante imperfezione della natura umana nella ricerca della perfezione assoluta.

The Prestige rappresenta quindi la sintesi perfetta del Cinema di Nolan, che attraverso una storia apparentemente lontana nel tempo riesce in realtà a riflettere perfettamente sulla nostra contemporaneità e sullo stesso Cinema, dove quest’ultimo costituisce lo strumento “tecnico” perfetto per indagare le nostre imperfezioni. 
E’ quindi questa l’ossatura cinematografica che costituisce le basi della poetica nolaniana, che personalmente la trovo molto calda nel suo approccio all’uomo, ma essendo quest’ultimo costantemente immerso in un mondo freddo e spesso troppo perfetto, ha bisogno di una messa in scena glaciale e chirurgica per dare quel contrasto emotivo e formale dove gli uomini come pedine in un gioco più grande di loro dovranno trovare la forza di andare oltre quel mondo che riflettono. E non sempre ci riescono perché schiacciati dalle loro stesse ambizioni. Caratteristica in cui rientra anche Nolan che dirige il suo film più autobiografico.

Voto 9+

Il cavaliere oscuro (2008) di Christopher Nolan

the dark night poster

O muori da eroe o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo.

Bruce Wayne/Batman

Il formidabile eco e il successo ai botteghini di Batman Begins richiamano Nolan alla regia per il secondo capitolo sul noto pipistrellone, optando però per un cambio netto nel titolo rispetto a quello del capitolo precedente per conferire un’aura ancora più drammatica e catartica al lungometraggio.
Il capitolo centrale assume dunque un tono ancora più oscuro grazie alla maggior libertà creativa lasciata a Nolan, che insieme a suo fratello Jonathan decide di andare in maggiore profondità nell’analizzare la mitologia del noto supereroe DC, concentrandosi sull’aspetto più interessante del suo intero arco evolutivo ovvero lo scontro eterno con la sua nemesi Joker, villain ormai iconico nella cultura pop che grazie al suo carisma folle ed anarchico ha valso il premio Oscar postumo a Heath Ledger, che di fatto ha reso un cult The Dark Knight, facendogli incassare più di un miliardo di dollari. Un record per un film supereroistico all’epoca.

Aldilà del caso mediatico che sicuramente ha contribuito ad immortalare il film agli occhi del grande pubblico entrando di fatto nell’immaginario collettivo e nella Storia del Cinema, Nolan conscio di avere a che fare con un materiale così pregnante come l’affascinante dualità filosofica tra le due nemesi più iconiche del mondo dei fumetti, immerge i due freaks in uno splendido noir-gangster-thriller metropolitano citando soprattutto un classico come Heat – La sfida, dove chiaramente ne riprende i tempi della narrazione, la messa in scena crepuscolare, la fotografia bluastra luccicosa nelle scene in notturno, nelle panoramiche su Gotham City e palesemente nella famosissima scena dell’interrogatorio dove al posto di Al Pacino e Robert De Niro siederanno Batman e Joker nel ruolo del “gatto” e del “topo”, anche se a conti fatti il Cavaliere Oscuro assomiglia più ad un “cane” rabbioso contro un “gatto” graffiante e giocoso nel catturare ed uccidere i suoi “topi”, “sorci”, “pantegane” di Gotham City per il mero gusto primordiale di tirare fuori la “bestialità” e il peggio nell’essere umano.

In questo splendido capitolo centrale viene dunque fuori tutta l’anima nolaniana sia in termini drammaturgici che in termini visivi, che sin dalla prima inquadratura fino all’ultima non scade in banali virtuosismi fine a sé stessi, anzi, segue costantemente i suoi personaggi nei loro drammi, nei loro momenti d’azione e nella loro spettacolarità sia scenica che simbolica, dando così ad ogni membro del cast il giusto spazio in uno scenario decadente e speranzoso allo stesso tempo, alternando sapientemente i momenti di pathos con quelli di intimità.
Il calore umano che traspare in questo mondo freddo e asettico è dunque il motore delle vicende che spingono i “buoni” ad incarcerare i “cattivi” attraverso la via della giustizia istituzionale incarnata dal nuovo procuratore distrettuale Harvey Dent, ormai “paladino” e “padrino” di Gotham insieme alla sua nuova fidanzata Rachel, protettrice e “madrina” della città e dunque compagna del nuovo cavaliere senza macchia e senza paura.
La battaglia giuridica e processuale affiancata dalle rinvigorite forze dell’ordine guidate dal coraggioso commissario James Gordon contro le preziose risorse finanziare della malavita, sembra dunque portare a un nuovo ordine alla città mettendo fine al dominio delle cosche mafiose grazie anche ai tempestivi interventi di Batman nello scuotere lo status quo criminoso.

A scuotere il nuovo ordine liberal-borghese imperniato sulla legalità che sembrerebbe capace di smacchiare Gotham dai suoi numerosi peccati, se ne occupa invece il Joker, criminale folle vestito e truccato come un pagliaccio assoldato per disperazione dai boss mafiosi per contrattaccare all’offensiva di Batman e dei suoi alleati.
L’introduzione di un villain così imprevedibile e folle come il Pagliaccio Principe del Crimine aderisce perfettamente alla poetica nolaniana nell’indagare l’ambiguità morale dell’essere umano e dei suoi connotati più irrazionali, che in un mondo apparentemente perfetto scardineranno il fragile equilibrio della razionalità e dell’ordine precostituito.
La carica eversiva e anarchica del Joker si contrappone perfettamente alla dogmatica crociata votata all’ordine di Batman che in questo tormentato secondo capitolo si vedrà spogliato delle sue certezze e intaccato nella sua moralità ferrea e pura, generando un contrasto emotivo, psichico, dialettico e filosofico tra le due nemesi tra caos e ordine, criminalità e giustizia, luce e oscurità, bene e male, distruzione e costruzione, nichilismo e costruttivismo.
Lo scontro ideologico e fisico di questi due archetipi fumettistici immersi in un contesto similmente realistico, è perciò uno specchio della nostra realtà che Nolan filtra attraverso la giungla urbana di Gotham City che mostra tutte le virtù e le deficienze della nostra società contemporanea a partire dalla giustizia, dalla burocrazia, dalle istituzioni, dalla dignità e dalla moralità che vengono tutte messe in discussione dal punto di vista anarchico del Joker che riesce a mettere in crisi l’esistenzialismo dell’intera metropoli e dei cittadini che vi ci abitano.
L’interpretazione cinematografica che incarna Heath Ledger è a mio avviso la più intrigante rapportandola alla base di partenza del fumetto, perché riesce ad incarnare il lato più anarchico, folle, subdolo, enigmatico, ambiguo, sporco, distruttivo e misterioso del personaggio, rendendosi così maledettamente inquietante con quel trucco cicatrizzato di dubbia provenienza utile per mascherarsi di una spettacolarità magnetica e imprevedibile, rubando di fatto la scena ogni volta che appare per seminare caos e distruzione.
L’essere una mina vagante morbosamente attaccata alla figura di Batman non fa che demistificare la simbologia e la mitologia battezzata in Batman Begins, decostruendo così il supereroismo del primo capitolo per sottolineare la sua decadenza come simbolo e oggetto di culto, ritornando in una dimensione più terrena nell’eterno dilemma morale se salvare Gotham o condannarla a morte, trascinando nelle tenebre anche gli ultimi bagliori di luce della città come la sua “madrina” (Rachel) condannata al martirio e il suo “padrino” (Harvey Dent) plagiato nell’impossibilità di combattere il male dal folle criminale psicopatico.

La discesa negli inferi della follia in cui la disperazione prevale sulla speranza, è incarnato perfettamente da Due Facce, il nuovo alter ego dell’ex procuratore distrettuale che incarna la disillusione dell’uomo contemporaneo e il fallimento delle istituzioni, annichilito dalle ingiustizie che albergano costantemente nell’involuzione di una società disfunzionale votata perennemente al disordine.
L’ascesa e la caduta della società postmoderna occidentale viene dipinta egregiamente da Nolan che all’interno di un narrazione noir-thriller volutamente pessimistica e oscura, mostra tutte le contraddizioni dell’essere umano che necessita soprattutto in periodi di incertezza di una spinta propulsiva simbolica e spirituale necessaria per continuare a vivere dignitosamente.
Ne “Il Cavaliere Oscuro” Gotham City diventa a tutti gli effetti una metafora del nostro mondo e della nostra civiltà, che sull’orlo del baratro dovrà sempre avere un mito e un punto di riferimento certo per superare le sue maggiori avversità.

La tragedia nolaniana figlia dei migliori drammi della cultura classica, sceglie quindi la strada del sacrificio del vigilante mascherato, che impossibilitato a domare forze oscurantiste e irrazionali più potenti di lui, sacrifica la sua stessa simbologia di giustizia e imparzialità per dare una falsa linfa vitale al valoroso cittadino comune, che aveva lottato attraverso le vie della legalità la corruzione dilagante di una città forse non ancora pronta a smacchiarsi dei suoi più grandi peccati.
Una bugia quindi crudele e lancinante, ma necessaria per un bene superiore in cui l’etica e la giustizia dovranno prevalere sempre sulla brutalità della violenza e della corruzione.

Ancora una volta la paternità problematica ritorna come tema ricorrente questa volta non tanto per sottolineare la virtù di un padre, ma il dovere e il dolore che deve sopportare per salvaguardare sulla salute e sulla felicità di un figlio. 
Batman deve perciò macchiarsi di colpe ingiuste per coltivare una menzogna in grado che i suoi figli possano avere fiducia nelle istituzioni che li proteggono dal male, come Alfred deve mentire a Bruce Wayne sui reali sentimenti di Rachel per non demoralizzare ulteriormente l’anima tormentata di un Cavaliere Oscuro che ha deciso di dimettersi dal suo ruolo di protettore della città.
Bugie, inganni, sotterfugi e sacrifici per un obiettivo al di sopra di ogni cosa tipico anche di scenari postbellici a noi ormai noti e che Nolan ha egregiamente dipinto in un affresco antropologico che qui si compie nel suo massimo splendore, e che ovviamente avrà forti ripercussioni nel terzo ed ultimo capitolo della trilogia.

Insomma, “The Dark Knight” si merita tutto il suo successo di critica e di pubblico per il suo sagace ingegno nel mescolare cinema d’intrattenimento con alte riflessioni sulla natura umana, prediligendo l’introspezione psicologica senza però dimenticarsi la spettacolarità del genere supereroistico, diventando quindi un cult e una fonte d’ispirazione per i cinecomics a venire e non solo.

Uno dei migliori cinefumetti mai creati che merita di stare nell’olimpo con altri grandi secondi capitoli supereroistici come Spider-Man 2, X-Men 2, Hellboy II The Golden Army, Guardiani della Galassia vol. 2, Batman Returns, che chiaramente dimostrano come certi autori dopo il loro primo capitolo “su commissione” siano poi riusciti ad avere una maggior libertà creativa per sprigionare tutta la loro visione cinematografica nel secondo capitolo.

Voto 9+

Inception (2010) di Christopher Nolan

poster di inception

Fiero e conscio del suo stratosferico successo ottenuto col Cavaliere Oscuro, Nolan decide di investire sempre con la Warner in un progetto più personale e molto ambizioso basato sull’interpretazione del mondo onirico dei sogni, affrontando dunque le sue solite tematiche cercando di incastrarle in un meccanismo narrativo volutamente criptico e magnetico.

Inception proprio per questa sua caratteristica così affascinante nel soggetto e ambiziosa nella messa in scena, ha riscosso parecchio successo ottenendo lo status di cult se non addirittura di capolavoro da parte delle stragrande maggioranza del pubblico, immortandosi così nell’immaginario collettivo soprattutto grazie al finale ambiguo della famosa trottola che è stato oggetto di speculazioni per numerosi anni a venire.
Inception ottenendo questa sua immagine così influente grazie al successo mediatico dei film batmaniani rendendo di fatto Nolan un regista mainstream e il più popolare d’America persino dei grandi nomi del passato, rappresenterà però un elemento deficitario all’interno della poetica nolaniana perché ricercherà da qui in poi una maggiore spettacolarizzazione a discapito della sostanza della drammaturgia.

La settima fatica nolaniana è infatti contrassegnata da un’eccessiva sopravvalutazione perché crolla nelle sue stesse ambizioni nel ricercare l’effetto sorprendente ad ogni costo attraverso una narrazione certamente complessa, ma affetta da una sostanza incredibilmente banale visto l’impianto teorico di partenza, abbandonandosi così in una pretenziosità confusa e inutilmente cervellotica.
A differenza di Memento e The Prestige infatti, Inception ricerca nella sua presunta complessità narrativa a scatole cinesi una verbosità a tratti artificiosa nello spiegare le regole del gioco di prestigio, relegando in questo modo la messa in scena ad un mero esercizio di stile infarcito di una miriade di effetti speciali a volte talmente ingombranti che risultano inutili ai fini della drammaturgia.
La complessità della natura umana viene perciò svilita e snaturalizzata dalla regia a differenza di Memento e The Prestige, dove essa era molto più elaborata ed evocata perfettamente dall’ingegnosa cinematografia nolaniana allora più genuina ed equilibrata. 

Inception perde dunque tutte quelle potenzialità che l’avrebbero reso veramente un capolavoro proprio perché stavolta il regista britannico fallisce nel realizzare il suo più grande prestigio, perdendosi di conseguenza nelle sue stesse ambizioni cercando anche di inseguire uno stile “blockbusteroso” che segna definitivamente la pietra tombale a qualsiasi velleità artistica profonda ed intellettuale.
Nonostante tutti questi difetti il film rimane comunque un blockbuster nolaniano godibile e a tratti interessante, che merita quindi un’esplicazione della trama per capire come mai Inception non sia un capolavoro assoluto e nemmeno un film d’autore “geniale” come molti dicono.

La storia si focalizza sulla vita di Cobb, un “estrattore”, in poche parole un ladro professionista in grado di creare ed entrare nei sogni delle persone attraverso un apparecchio a orologeria che permette una condivisione onirica con il suo team di supporto in modo da rubare insieme le idee alla vittima nel suo sogno e consegnarla poi alle aziende di turno che li assoldano.
Un giorno però, in una loro missione Cobb e il suo team vengono scoperti dalla loro stessa vittima a cui stavano rubando l’idea, un CEO di una multinazionale giapponese che intende scoprire la loro tecnica onirica per assoldarli a loro volta per compiere un altro compito più complesso: eseguire un “innesto” che consiste nell’entrare nel sogno del bersaglio e convincerlo nel suo subconscio di un’idea permanente che poi conserverà per tutta la vita. L’obiettivo è quello di convincere il figlio di un proprietario ormai morente di una multinazionale concorrente nel campo dell’energia a scorporarla in tante piccole imprese una volta diventato il nuovo CEO, in modo che la multinazionale giapponese possa diventare l’unica vera leader del settore dell’energia.
L’idea inizialmente sembra folle in quanto mai provata sull’essere umano, ma Cobb accetta l’onere del suo nuovo incarico visto che è l’unico modo per ritornare dai suoi figli negli Stati Uniti in quanto gli è negato l’accesso al paese perché incriminato ingiustamente per la morte di sua moglie.
Dopo aver accettato l’incarico del suo nuovo cliente, Cobb decide di riunire un nuovo team di esperti per preparare al meglio l’ingresso nel sogno del figlio della multinazionale rivale, realizzando un piano certosino che però verrà a messo a dura prova dal subconscio della sua moglie defunta, che farà di tutto pur di ostacolare il team di Cobb insieme agli “anticorpi” del subconscio del bersaglio soprattutto quando dovranno creare tre livelli di sogno rischiando di sprofondare addirittura nell’etere del vuoto assoluto della propria mente.

Indubbiamente l’idea centrale dei sogni e del mondo onirico derivato da essi è di per sé coinvolgente e stimolante da osservare, dove si nota come Nolan si sia divertito a giocare con le varie illusioni e realtà che si mescolano e che stridono, riprendendo anche la tematica del doppio quando viene rappresentata dal subconscio della moglie di Cobb che rappresenta di fatto la coscienza sporca del protagonista. 
Realtà e sogno infatti si confondono e si scontrano in questa complessa narrazione a scatole cinesi dove l’ambiguità della morale umana viene a messa a dura prova, infatti il protagonista vivendo per un periodo di 50 anni con la moglie in un mondo idilliaco perde il contatto con la realtà perché quest’ultima fredda, calcolatrice, anonima, sciatta, effimera, dolorosa e imperfetta. 
In questa fuga romantica senza tempo e spazio all’interno del loro sogno, i due coniugi si perderanno in un labirinto perfetto che però seminerà i semi dell’imperfezione stessa che poi provocherà i traumi nel mondo reale come la morte della moglie ormai assuefatta dall’idea di vivere dentro un sogno quando in realtà non era vero. Un suicidio causato dall’innesto di Cobb che le aveva piantato per uscire dal sogno, ma che poi nella loro vita reale diventerà un vero e proprio effetto collaterale inverso tanto da portare alla morte stessa.
La ricerca di un’utopia onirica e di una condizione esistenziale stabile ed eterna è dunque l’elemento centrale della pellicola che poi muove l’instabilità onirica di Cobb, che dovrà fare i conti col suo passato nel suo stesso subconscio e durante la sua complessa operazione a 3 livelli di sogno rischiando di mettere a repentaglio la mente di tutti i suoi colleghi.

La costante ricerca dei figli per poter ritrovare quella genitorialità mancata e ripararne la sua natura essenzialmente problematica, è il cuore della vicenda che Nolan vorrebbe far empatizzare allo spettatore all’interno del suo mondo onirico, ma essendo quest’ultimo artificioso ed eccessivamente “spiegato”, il discorso pedagogico e sentimentale perde fascino e svilisce l’intero impianto narrativo che viene eccessivamente sovraccaricato di “sogni nei sogni” e di caratterizzazioni di fatto superficiali a parte quella del complessato protagonista.

La problematica maggiore di Inception risiede dunque nella sua voglia di risultare intellettualmente accattivante e allo stesso tempo uno spettacolo di massa, finendo col diventare un film ridondante nei suoi intrecci narrativi, e banale nel suo messaggio finale, svelando di fatto una scrittura pretenziosa che poi nei suoi risvolti finali si perde su stessa dimostrando nientemeno di essere alla fine un blockbuster non ambiguo, ma insipido.

Il tanto discusso finale “se la trottola cade o no” è di fatto un’ambiguità che non dovrebbe essere tanto discussa per le sue implicazioni narrative aprendo poi mille dibattiti nerdosi tra sogno o realtà, ma va letta come una precisa scelta drammaturgica di Nolan nell’evidenziare come il protagonista sia riuscito finalmente a superare il trauma della moglie e che è pronto ad abbracciare quello a cui tiene di più: i suoi figli, l’unica certezza che ha nel mondo reale. Punto. Lieto fine.
Il resto delle interpretazioni sono soltanto frutto di una furba inquadratura nolaniana studiata unicamente per far discutere di una trama in realtà abbastanza lineare rispetto alle complessità narrative ben più intriganti come quelle sulla mente in Memento e quelle sull’illusionismo di The Prestige, dove l’impianto narrativo è molto più asciutto e focalizzato su un preciso schema logico sviscerandolo con gusto.

Concludo dicendo che Inception non è un brutto film perché conserva comunque degli spunti narrativi e visivi interessanti, ma che nella loro esecuzione si perdono in un calderone talmente zeppo di cose da dire che alla fine il sapore della zuppa risulta insipido e poco nutriente, finendo col rimanere un po’ indifferenti e un po’ disorientati a fine visione anche per una scrittura soprattutto prolissa nella sua verbosità nella prima parte della pellicola ed eccessivamente sbrigativa ed “action” nella risoluzione finale.

Il fascino del mondo onirico dei sogni si sciupa così in un’illusione purtroppo mancata da parte del grande prestigiatore nolaniano, che confrontandosi con altre pellicole basate sul contrasto tra sogno e realtà, si ritroverà ampiamente surclassato sia in termini registici che di scrittura. 

L’unico punto su cui non verrà decisamente superato dai suoi colleghi a Hollywood è sicuramente l’incasso, che qui raggiunge la cifra più alta di tutta la sua carriera escludendo i due capitoli del Cavaliere Oscuro
Guadagnandosi così, oltre la riconferma da dipendente privilegiato della Warner, anche l’appellativo di “genio e maestro assoluto del Cinema” dal suo sempre più crescente pubblico fidelizzato nolaniano che lo porterà a ricevere addirittura una grande adorazione quasi “ultraterrena” sul web.

Voto 7+

Il cavaliere oscuro – Il ritorno (2012) di Christopher Nolan

the dark night rises poster

Chiunque può essere un eroe. Anche un uomo che fa una cosa semplice e rassicurante, come mettere un cappotto sulle spalle di un bambino per fargli capire che il mondo non è finito.

Bruce Wayne/Batman

Il Cavaliere Oscuro consacra il nome di Christopher Nolan agli occhi del grande pubblico generando anche una notevole schiera di proseliti nolaniani che raggiungerà poi il culmine con il sopravvalutato Inception. La portata mainstream di tutte queste variabili spingono perciò il regista a concludere la nota trilogia DC insieme a suo fratello Jonathan, dove entrambi si trovano d’accordo nel proporre uno scenario completamente diverso rispetto al capitolo precedente per concludere al meglio l’arco evolutivo del tenebroso eroe fumettistico.

La distanza temporale di 8 anni dagli eventi del secondo film serve dunque ad enfatizzare la vittoria “presunta” di Batman e dei suoi alleati, ma anche la sconfitta morale e spirituale per le bugie, i rimorsi e i sensi di colpa su cui si fonda la nuova società di Gotham City, retta su un ordine opulento di matrice liberal-borghese che sembra aver spazzato via il male in favore del bene.
Questo scenario da dopoguerra fondato sul benessere economico, cela in realtà un malessere sociale latente, soprattutto nei ceti più bassi che si rifugiano nelle fogne sotto il tessuto urbano della metropoli lontani dall’autorità della legge, in modo da favorire le attività clandestine del terrorista guerrigliero Bane che si nutre dell’oscurità di Gotham per preparare una vera e propria rivoluzione.

La presentazione oscura, eloquente, minacciosa, mastodontica, letale e muscolare del nuovo antagonista è dunque perfettamente coerente con la nuova drammaturgia messa in atto nel terzo ed ultimo capitolo della trilogia, dove si assiste ad una vera e propria caduta apocalittica di una società occidentale che nascondendo il marcio sotto un tappeto apparentemente pulito, si ritroverà capovolta da quello stesso sporco che cercava disperatamente di dimenticare.
La scomparsa della vigilanza di Batman e il dilagare di una fastosità capitalista ormai imperante e corrotta in tempi di pace, pone le basi ad una vera e propria ascesa dal basso dall’oscurità delle fogne dell’intero industrioso piano del carismatico Bane, che facendo crollare la Borsa e riducendo a brandelli l’establishment capitalista di Gotham tra cui la famosa Wayne Enterprises portando sul lastrico il patrimonio dello stesso Bruce Wayne, colpisce direttamente al cuore pulsante del sistema aristocratico gothamita e aggredendo di fatto lo status quo conquistato con la menzogna nel secondo atto della trilogia da parte delle istituzioni della giustizia.
Il pericolo mortale di Bane rappresenta dunque un risveglio dal torpore di un Bruce Wayne invecchiato e segnato dal dramma del Joker, che dovrà risorgere come protettore della sua città cercando di riacquisire la sua simbologia ormai macchiata e vetusta per i nuovi tempi che corrono.

La rinascita spirituale nell’affrontare la cruda verità della realtà dei fatti è dunque il tema centrale di questo splendido capitolo finale che trova una perfetta discesa e ascesa nello scontro psicologico, spirituale e mortale con l’acerrimo villain Bane, che spogliato delle sue caratteristiche più fumettose che lo potevano far sembrare troppo ridicolo sul grande schermo, si presta perfettamente come elemento di contrasto all’arrugginito ed impreparato crociato incappucciato che verrà spezzato sia nell’anima che nel corpo.
La componente del dolore e della disperazione si inseriscono dunque magnificamente nell’articolata disamina nolaniana sulla psicologia dei due alter ego Batman e Bruce Wayne, che nella loro caduta come uomo e come supereroe enfatizzata dalla prigione-pozzo in cui vengono gettati dal famigerato mercenario temprato anch’esso dall’oscurità, dovranno ritornare alle origini delle loro radici quali le tenebre e la paura atavica per i pipistrelli per rimettere insieme i dogmi della loro simbologia per ritrovare nuovamente quella spiritualità innata ed incorruttibile necessaria per salvare Gotham City una volta per tutte dalla sua inevitabile decadenza che attira morbosamente tutti i suoi carnefici.
La dolorosa caduta negli inferi della Terra e la lenta ma meditativa presa di coscienza nel dover rifondare la propria mitologia interpretate magistralmente da un fantastico Christian Bale, sono semplicemente fantastiche sia a livello di messa in scena sia sul piano drammaturgico, raggiungendo così l’apice dell’epica nolaniana pompata a dismisura dalla potentissima colonna sonora di Hans Zimmer che unita all’IMAX non può che far venire i brividi soprattutto in una sala cinematografica.
La spiritualità intrinseca di The Dark Knight Rises non è dunque inserita casualmente all’interno della narrazione, tanto è vero che riprende lo scontro avviato in Batman Begins tra la Setta delle ombre di Ra’s Al ghul e Batman, che trova nel terzo capitolo la sua splendida conclusione finale grazie anche ad un villain molto più impattante e crudele rispetto alla discreta interpretazione di Liam Neeson.

Il Bane interpretato da Tom Hardy pur non raggiungendo la magnificenza del Joker di Heath Ledger, rimane comunque un villain carismatico e carico di un’aura rivoluzionaria libertaria degna dei migliori combattenti della Storia, che nascendo metaforicamente dall’oscurità delle fogne di Gotham, una volta risalito in superficie abbattendo le fondamenta della città insieme a tutto il suo complesso industriale e militare, sembra quasi di assistere ad una vera e propria Rivoluzione bolscevica per la sua carica eversiva nell’instaurare una nuova forma di autogoverno per la città di Gotham. 
La liberazione dei prigionieri del penitenziario di Blackgate incarcerati sotto il decreto Dent, la lettura della lettera di Gordon in cui confessa l’insabbiamento dei crimini di Harvey Dent, l’attacco al potere finanziario della borsa di Gotham, l’instaurazione di un regime del Terrore con tribunali del popolo per eliminare i ricchi borghesi e i potenziali nemici dello Stato, l’imprigionamento dell’intera polizia di Gotham nelle fogne, il ricatto con la bomba a neutroni contro ogni tentativo di intervento dell’esercito americano, la resistenza partigiana dei più valorosi poliziotti contro la neo-dittatura militarista, sono tutte scene d’impatto che regalano un clima apocalittico da Rivoluzione Francese veramente intrigante che segna definitivamente la centralità dell’universo Gotham City nello stratificato worldbuilding nolaniano, che è fondamentale per tutto lo sviluppo della trilogia sul Cavaliere Oscuro e perfetta espressione del nostro tempo.
Un mondo crepuscolare che brucia sotto il malessere provocato dal precariato della crisi economica globale, dove ogni istanza di rinnovamento viene schiacciata dall’algoritmocrazia che indirettamente porta le variabili più irrazionali del nostro mondo ad esplodere nella violenza verso un orizzonte distruttivo in quanto disincantante dalla realtà soffocante che le governa.

Ed è in questo appassionante affresco allegorico che Nolan inserisce la simbologia di Batman, che non esita a sacrificarsi per il bene dei suoi figli ovvero i cittadini di Gotham, che disillusi, spaventati e imprigionati dal dispotico regime criminoso di Bane, dovranno ritrovare la fiducia in un vero mito che sappia inculcare la speranza, la luce, la retta via, l’esempio, un simbolo immortale di un uomo, un padre, un supereroe capace di caricarsi del fardello esistenzialista di un’intera città che non potrà mai raggiungere la perfezione, per ispirare le odierne e le future generazioni ad ambire ad un futuro migliore in cui la giustizia, la polizia, le istituzioni, le élites, lo Stato servino l’unica vera causa che conta ovvero quella dei cittadini, dal primo all’ultimo, nessuno escluso.
Il sacrificio di un simbolo immortale non solo possono aiutare una collettività a migliorarsi, ma anche ad un uomo introverso, altruista, rancoroso, triste, solo e disilluso a trovare la forza di staccarsi dall’utero materno che lo legava morbosamente alla città di Gotham per dedicare tempo a sé stesso e cominciare a vivere una vita felice e serena con una persona che possa amare senza doversi sdoppiare l’identità. Una seconda chance, un nuovo inizio, una nuova vita che un padre può concedersi dopo essere stato anch’egli figlio di padri tutt’altro che perfetti: Thomas Wayne, la paternità mancata; Alfred Pennyworth, la paternità acquisita; Ra’s Al Ghul, la paternità spirituale e infine James Gordon, il padre eroico e morale, l’ispirazione finale per l’eroismo da adottare.

Insomma, The Dark Knight Rises è un’opera pregna di sottotesti come i precedenti capitoli e chiude una magnifica trilogia che ha segnato la storia del cinefumetto grazie alla sua grande versatilità nel mescolare più generi cinematografici per condensarli in una narrazione improntata nell’indagare la natura umana in un mondo fittizio che è in realtà speculare al nostro. 
Questa interpretazione similmente realistica abbastanza criticata dai detrattori di Nolan, in realtà dona una personalità unica al contesto supereroistico, che può finalmente spaziare in atmosfere diverse dal solito conservando comunque la spettacolarità del genere supereroistico e la visione di un autore, che indubbiamente ha rivoluzionato insieme ad altri grandi autori suoi contemporanei la percezione del filone cine-fumettistico agli occhi del grande pubblico. Con tutti i pregi e i difetti del caso.

Voto 9

Interstellar (2014) di Christopher Nolan

interstellar poster

La fantascienza ha affascinato da sempre numerosi registi per tutta la Storia del Cinema, tant’è che anche quelli più indirizzati su altre tipologie di genere, son poi capitati a dirigere almeno un film fantascientifico.
Questo perché sin da piccoli e da ragazzi affascinati dalla controparte letteraria e cinematografica del loro passato, ma soprattutto attratti per le incredibili potenzialità creative del genere che ha la capacità di creare storie fantastiche e lontane dal nostro spazio-tempo, ma in realtà molto vicine e realiste nel riflettere la condizione intrinseca della natura umana.

Nella lista dei numerosi registi che hanno sperimentato la fantascienza, Nolan vi si è voluto inserire dopo il clamoroso successo del “Cavaliere Oscuro – Il ritorno” insieme a suo fratello nella scrittura del suo Interstellar, cercando però per il suo nuovo film fantascientifico un taglio più realistico ed antropocentrico basandosi sulle più accertate e note teorie scientifiche del nostro tempo per realizzare la sua catartica epopea spaziale al cui centro ci sarà solo ed esclusivamente l’essere umano. Con tutte le sue imperfezioni. Con tutti i suoi sentimenti. Con tutta la sua anima. 

Il lungometraggio narra il tragico destino del pianeta Terra nel XXI secolo sull’orlo di una carestia globale a causa di una “piaga” che si nutre dell’azoto atmosferico consumando quantità notevoli di ossigeno, provocando anche notevoli tempeste di sabbia che accelerano una desertificazione devastante per i campi coltivati. In questa crisi planetaria, la quasi totalità del genere umano è rassegnata a diventare una massa di agricoltori per sopravvivere all’inevitabile estinzione, evitando di conseguenza qualsiasi spreco di denaro in avventure spaziali per trovare nuovi pianeti abitabili e creando una sorta di disinformazione globale per disincentivare i giovani ad imbarcarsi in carriere improduttive in una società pragmatica e rassegnata.
Nella disperazione generale, Joseph Cooper, ex ingegnere e pilota della NASA ora agricoltore, non si vuole far abbattere dai tempi duri che corrono, insegnando dunque a sua figlia ad amare la Scienza stimolando sempre la curiosità verso il mondo che la circonda per non disilluderla già nella sua fanciullezza sulla cruda realtà che dovrà affrontare da grande, infondendole quindi speranza e determinazione verso il futuro.
Un giorno durante le solite esercitazioni per ripararsi dalle tempeste di sabbia ormai tossiche, Cooper scopre nella stanza della figlia Murph che è presente un’anomalia gravitazionale che forma delle strane strisce di sabbia riconducibili al linguaggio binario. Una volta decifrato “il messaggio in codice”, l’ex ingegnere spaziale scopre che sono delle coordinate geografiche che lo portano in luogo sperduto nel deserto, dove viene assalito e poi portato di nascosto in una base segreta che si scopre successivamente essere la sede della stessa NASA per cui ha lavorato per tanti anni. La segretezza della loro ubicazione è dovuta a causa dello scioglimento dell’agenzia governativa aerospaziale dopo l’affermarsi della crisi planetaria che non permetteva più di spendere ingenti capitali verso nuove esplorazioni spaziali.
L’ex professore di Cooper John Brand spiega che la loro attività segreta ha il fine ultimo di salvare la razza umana “trasportandola” verso un nuovo pianeta abitabile grazie ad un cunicolo spazio-temporale detto “wormhole” formatosi vicino a Saturno che permette di viaggiare in poco tempo verso una nuova galassia. Questa anomalia spaziale secondo gli esperti della NASA è stata creata da degli esseri superiori penta dimensionali che trascendono le leggi classiche dello spazio-tempo, dando quindi la possibilità agli esseri umani di esplorare nuovi pianeti potenzialmente abitabili.
Per la riuscita di questo ultimo tentativo disperato per salvare dall’estinzione l’intera razza umana, John Brand chiede quindi a Cooper di partecipare ad una missione spaziale guidando l’Endurance, un’astronave creata appositamente per le esplorazioni spaziali che ha il compito di recuperare gli altri astronauti inviati a “colonizzare” i nuovi pianeti della nuova galassia oltre il wormhole per poi ritornare sulla Terra coi nuovi dati acquisiti da quest’ultimi.
Cooper sentendosi in dovere di salvare l’umanità, accetta la missione da pioniere abbandonando di fatto il ruolo di padre lasciando la sua famiglia in balia delle disgrazie del pianeta Terra, ma promettendo che un giorno ritornerà a casa per poter riabbracciare i suoi figli e portarli verso la nuova “casa” oltre il sistema solare, affidandosi anche agli studi del suo ex professore che per il suo arrivo avrà risolto la “teoria del tutto”, ovvero uno studio ormai decennale capace di risolvere qualsiasi fenomeno fisico conosciuto dall’essere umano tra cui quello di controllare la gravità.
Dopo il doloroso addio soprattutto a sua figlia che lo odierà per questa sua drastica scelta, Cooper si imbarca con un esiguo equipaggio di astronauti sull’Endurance per compiere il viaggio interstellare che dovrà salvare una volta per tutte il destino dell’umanità e quindi anche quello della sua famiglia.

Sarà perché ho un debole per la fantascienza, sarà perché spesso seguo più il cuore che la ragione, sarà perché mi son fatto stregare dalla magnificenza dello Spazio, sarà perché mi sono abbandonato completamente alle emozioni, ma Interstellar rappresenta a mio avviso una delle summe della fantascienza adulta degli anni 2000 che conferma l’incredibile versatilità di Christopher Nolan che qui firma una delle sue opere migliori.
Insieme al fratello Jonathan infatti, decide di imbarcarsi in questa epopea spaziale dove il suo impianto realistico e dunque antropocentrico risulta magnetico nel catturare l’attenzione dello spettatore che si vede sin dalla prima inquadratura catapultato in questa apocalisse terrestre che non può che colpirlo nell’emotività vista la verosimiglianza delle vicende alla nostra realtà.
A differenza di Inception infatti, in Interstellar il regista britannico riesce perfettamente a bilanciare sia una storia sentimentale sia un discorso più stratificato ed approfondito sulla natura umana, che grazie ad un ottimo montaggio alternato riesce ad esplicare tutte le contraddizioni e le imperfezioni dell’uomo di fronte all’ignoto dello Spazio e alla catastrofe planetaria. 
La commistione di questi due aspetti fondamentali riesce quindi a trovare un giusto equilibrio nel trasmettere la giusta empatia con il grande pubblico per dirigerlo verso discorsi teorici scientifici abbastanza complessi che per alcuni potrebbero risultare dei banali spiegoni, ma che invece rientrano nella grande logica che il regista britannico aveva in mente per il suo Interstellar, ovvero un’interpretazione più realistica del genere fantascientifico per mostrare che è possibile conferire alla razionalità scientifica anche una emblematica spiritualità che poi sarà il fulcro fondamentale per comprendere l’irrazionalità intrinseca dell’uomo.

L’odissea spaziale che viene avviata dopo un lungo, catartico e terrestre primo atto, acquisisce così un’aura epica e tremendamente sfaccettata nella sua lunga esplorazione spaziale in cui Nolan mette a nudo tutte le fragilità dell’uomo che alla deriva della sua esistenza, sarà mosso dai suoi istinti più primordiali come nel caso dell’astronauta Mann, emblema dell’individualismo “illuminato” pronto a sacrificare con cinismo l’intera razza umana per raggiungere un “bene superiore”.
La razionalità scientifica che schiaccia il sentimentalismo in favore del puro calcolo algoritmico è dunque una costante nella titanica impresa lasciata in mano a Cooper e al suo equipaggio, dove gli errori saranno figli delle emozioni e le bugie frutto di disillusioni, quest’ultime alimentate da una sfiducia pragmatica che pone gli stessi innovatori (gli speranzosi pionieri della NASA) sullo stesso piano dei conservatori (le élites della Terra improntate su una post-verità in cui sarà l’agricoltura a salvare il mondo).
Lo scontro ideologico tra innovazione e conservazione della società è un tema molto importante che Nolan riesce a sviscerare egregiamente in un contesto apparentemente spaziale, ma che in realtà riflette perfettamente il pianeta Terra dove da sempre si scontrano queste due visioni del mondo che hanno poi segnato il retaggio dell’umanità.
Cooper incarna in questa eterna lotta dove sembra prevalere la conservazione anche nella stessa innovazione, il lato più altruistico e spirituale degli innovatori destinati ad alzare la testa anche nei momenti di più assoluta disperazione, in cui la chiave risolutiva per evitare l’annichilimento esistenziale risiede nella propensione verso l’impossibile e l’irrazionalità, avendo però sempre a mente i valori per cui lottare.

Questa incredibile tenacia che rappresenta un vero e proprio inno verso l’evoluzione, l’esplorazione e la libertà di abbattere ogni catena che lo spazio-tempo sembra imporre al genere umano, trova il suo più grande fulcro nell’amore paterno di Cooper verso sua figlia Murph, elemento emozionale e drammaturgico fondamentale per risolvere l’eterna maledizione “divina” che sembra condannare la missione spaziale verso lo sbaraglio.
La tematica nolaniana della genitorialità problematica ritorna nuovamente, e questa volta in veste maggiore per sottolineare nuovamente come la costante ricerca della perfezione dell’essere umano attraverso formule scientifico matematiche non sia la sola risposta per risolvere dubbi amletici materialmente impossibili da soddisfare col puro raziocinio. 
Il legame paterno reciso in favore della scienza, ma non senza lasciare una forte impronta sentimentale ad entrambi i poli ovvero padre e figlia (di fatto figli della scienza, promotori dell’impossibile e base per una futura innovazione), costituisce incredibilmente la variabile irrazionale fondamentale per ultimare lo schema finale della “teoria del tutto”, dove in una sequenza magnifica nel tesserato all’interno del buco nero Gargantua, padre e figlia riescono a comunicare in una quinta dimensione dove lo spazio-tempo non segue più nessuna regola a noi conosciuta se non quella dell’indissolubile amore, quest’ultimo il collante paradossale per salvare l’intera razza umana.

L’universo che connette la quintessenza di ognuno di noi, l’amore come capacità universale per trascendere lo spazio-tempo, un legame famigliare che permette al genere umano di sopravvivere nello spazio profondo, la scienza che si piega all’irrazionalità del sentimento e lo spirito della scienza che acquisisce potenza espressiva grazie alla Settima Arte, l’antropocentrismo nolaniano che asciuga la fantascienza per rendere credibile e vicina un’epopea che entra di diritto tra le migliori opere Sci-Fi del XXI secolo coniugando egregiamente l’intelletto con l’intrattenimento e connettendo le masse popolari con l’illimitata fantasia del genere fantascientifico.

Interstellar costituisce dunque un grandissima opera fantascientifica, seppur non priva di difetti come il presunto “genio nolaniano”, grazie ad una centratura tra sentimento e intelletto funzionale per quello che vuole essere: un raffinato blockbuster d’autore per le masse. 

La notevole regia di Nolan inoltre, raggiunge vertici assoluti grazie anche ad un’amorevole ricercatezza nell’uso dell’analogico rispetto allo strabordante digitale di Inception per seguire un’artigianalità tipica dei capolavori fantascientifici del passato, gestendo al meglio anche la tecnologia IMAX relegandola soprattutto alle inquadrature spaziali per mostrare l’immensità di uno Spazio infinito, profondo, vuoto, silenzioso e allo stesso tempo magnetico per la sua vastità stellare.
La colonna sonora di Hans Zimmer per questa epopea fantascientifica di caratura omerica lavora incredibilmente in sottrazione, abbandonando dunque la pomposità presente prepotentemente nella trilogia del Cavaliere Oscuro per abbracciare un suono più meditativo, delicato, malinconico e spaziale.

Nolan con questa sua nona fatica mi ha dunque conquistato per la sua sofisticata ricerca nel reinterpretare il mito della fantascienza conferendogli un’aura realistica, ma allo stesso tempo profetica per l’avvenire dell’essere umano, tanto da farmi riflettere su un potenziale esodo problematico della razza umana verso un altro pianeta oppure io stesso astronauta in balia dello spazio profondo risucchiato nell’infinito di un buco nero.

Insomma, Interstellar proprio per il suo impianto epico dal taglio scientifico mi getta in riflessioni sullo spazio profondo che di solito non mi pongo quotidianamente, ma che mi invoglia ogni volta a fine visione di approfondire certi fenomeni astrofisici che indubbiamente esercitano un fascino sull’esistenzialismo di ognuno di noi. E tutto ciò non fa altro che farmi amare la fantascienza con tutte le sue imperfezioni tra cui il noto Interstellar nolaniano.

Voto 9+

Dunkirk (2017) di Christopher Nolan

dunkirk poster

L’emozionante avventura fantascientifica di Interstellar consacra nuovamente Christopher Nolan agli occhi del grande pubblico riuscendo a mantenere un’alta notorietà anche al di fuori della trilogia sul noto pipistrellone, grazie alla sua notevole tecnica spettacolarizzante coniugata ad un intrattenimento di spessore ormai idolatrato dal suo pubblico fidelizzato. 
Il regista britannico decide così di buttarsi su un progetto ancora più personale che sognava da anni ovvero realizzare un war movie sulla famosa evacuazione di Dunkerque (nel film Dunkirk) del 1940 durante la Seconda Guerra Mondiale, scegliendo però una cifra stilistica più asciutta, analogica e quasi minimalista rispetto ai suoi altri lavori abbandonando anche molti dei suoi temi cervellotici spesso criticati dai suoi detrattori.

L’approccio di Nolan al famoso miracolo bellico compiuto dal famoso contingente anglo-francese segue dunque un approccio cinematografico di taglio realistico nella ricostruzione degli eventi utilizzando effetti speciali analogici e mezzi bellici dell’epoca per donare allo spettatore un’immersione totale e fedele sull’evento storico trattato, eliminando addirittura ogni tipo di protagonismo attoriale optando per un cast corale per sottolineare la preminenza della Storia rispetto agli uomini che in Dunkirk diventano mere pedine in quanto soldati allo sbaraglio in bilico tra la vita e la morte, la speranza e la disperazione, la vittoria e la sconfitta.

L’aspetto più interessante del lungometraggio è sicuramente la narrazione non lineare tipica della poetica nolaniana ossessionata dalle distorsioni temporali che qui si suddivide schematicamente nei tre teatri di scontro tra le truppe anglo-francesi e l’esercito tedesco: il molo di Dunkerque che copre un arco temporale di una settimana dove la maggior parte delle truppe alleate attende le navi di soccorso dell’Impero britannico per poter fuggire nel Regno Unito; il mare che copre un arco temporale di un giorno dove si assiste al recupero dei soldati da parte delle imbarcazioni dei civili britannici; e infine il cielo che copre un arco temporale di un’ora dove tre piloti della Royal Air Force cercano di proteggere i soccorsi marini della madrepatria dai caccia e bombardieri tedeschi che distruggono ripetutamente i trasporti britannici necessari per salvare il battaglione anglo-francese accerchiato dalla morsa dell’esercito nazista.
L’intreccio di queste tre sequenze temporali e spaziali attraverso un montaggio alternato studiato nei minimi dettagli conferma un’altra volta la grande tecnica di Nolan, che con questo suo film di guerra dimostra una profonda ricercatezza nella drammaturgia della messa in scena per evidenziare al meglio la drammaticità della guerra e della disumanità che comporta nei soldati.
L’introspezione psicologica emozionale viene dunque meno sulle singole caratterizzazioni dei singoli personaggi, ma redistribuita equamente nell’intero corpo attoriale che deve interpretare svariati ruoli militari senza particolari approfondimenti psicologici.
L’empatia e l’immedesimazione dello spettatore nei personaggi vengono perciò accantonate dal regista per dare maggior enfasi più all’evento storico e al mondo che lo circonda piuttosto che alle mere pedine umane che lo compongono, ritornando dunque all’aspetto più radicale della poetica nolaniana che suggerisce allo spettatore di innamorarsi più alla spettacolarità del “sistema Cinema” più che al semplicistico bisogno fisiologico di riconoscersi in qualcuna/o dall’altra parte dello schermo.
La glacialità e la freddezza più spinti del solito in questo Dunkirk tutto nolaniano hanno dunque un senso ai fini della drammaturgia, dove la brutalità della guerra che riporta allo stadio primitivo l’uomo non porta nient’altro che ad una sofferenza e violenza continue, e che solamente il sentimento della compassione e dell’altruismo definiscono le reali virtù e valori di un uomo in tempo di guerra.
Il messaggio pacifista della pellicola non è quindi da mettere in discussione e in fin dei conti è più che lecito difenderlo, tuttavia il film non riesco ad amarlo totalmente anche per via della mia generale critica al didascalismo e alla piattezza della maggior parte dei film storici in cui Dunkirk rientra per una serie di motivi.

Innanzitutto cambiare il nome della città da Dunkerque a Dunkirk nel titolo solamente per esaltare il coraggio britannico rispetto a quello francese è di per sé retorico in un film che non vuole sembrarlo visto che a conti fatti il sacrificio dei francesi viene piuttosto marginalizzato rispetto al ruolo dei britannici che sì, Nolan critica in alcuni momenti quando un soldato britannico si scaglia contro un soldato francese solo perché silenzioso e “straniero”, ma per il resto del film a parte qualche occhiolino alla Francia sono gli inglesi a scamparla grazie al loro coraggio e alla loro “fortuna geografica”, senza menzionare minimamente i rimpatri, i sacrifici e la capitolazione che i francesi subiranno pochi mesi più tardi alla Operazione Dynamo.
Questo ambiguo e mascherato patriottismo all’Impero Britannico mescolato ad una presunta ricerca storiografica eccelsa e analogica, in realtà cozza terribilmente con la realtà dei fatti che Nolan altera per compiacere il suo gusto estetico, ma che alla fine della fiera non dona minimamente spessore all’opera in sé dove diventa un mero esercizio di stile senza amore né calore simile più ad un bel documentario storico che ad un profonda esegesi sulla guerra e sulla Storia.

Il risultato di un approccio così artificioso al materiale storico-bellico non gli conferisce quindi né un approccio atipico e profondo come grandi capolavori del passato quali Apocalypse Now e Full Metal Jacket né uno profondamente emozionale (e anche profondamente retorico perché no) come i recenti La Battaglia di Hacksaw Ridge e L’ora più buia, finendo col diventare anonimo non solo nel genere dei war movie, ma anche all’interno della stessa filmografia del regista.
Il tecnicismo nolaniano così esasperato nella ricerca stilistica cinematografica perfetta cozzando incredibilmente col suo stesso realismo storiografico pretestuoso tanto ricercato senza poi generare nessun tipo di coinvolgimento emotivo da parte dello spettatore persino nella lettura del famoso “Dunkirk spirit” di Churchill perché letta da un apatico soldato britannico sopravvissuto alla disfatta militare, non può che lasciare una profonda amarezza e una conclusione scialba dopo uno spettacolo visivo comunque degno di tale nome.

Dunkirk, o meglio Dunkerque come è universalmente riconosciuta la città francese nel mondo, soffre a mio avviso di una eccessiva formalità drammaturgica che ne svilisce la sostanza sia storica che cinematografica, regalando sicuramente uno spettacolo estetizzante e passionale nella sua ricostruzione scenica della Storia, ma che in fin dei conti se non fosse stato girato con alcuni dei canoni nolaniani, sarebbe rimasto un semplice e banale documentario storico con parecchie ambiguità ed inesattezze.

E se Nolan avesse voluto tanto imitare un Malick o un Kubrick di turno per il suo prezioso war movie, gli sarebbe mancato oltre un talento artistico notevolmente superiore, anche una caratteristica fondamentale necessaria per colpire fino in fondo lo spettatore: il cuore. 
Un elemento che spesso non va a braccetto con l’eccessiva razionalità e la voglia di superarsi sempre per mantenere viva un’ambizione spesso troppo cervellotica, che infatti rappresenta chiaramente la maledizione della poetica nolaniana.

The Prestige insegna, ma anche un’opera quasi centenaria come Metropolis: “Il mediatore fra il cervello e le mani dev’essere il cuore!”.

Voto 7.5

Tenet (2020) di Christopher Nolan

poster di tenet

«Non cercare di capire, sentilo»

Credo sia questa la frase da cui partire per comprendere il nuovo film di Christopher Nolan in tutte le sue contraddizioni e le sue virtù. 
Sembra che il regista britannico da Dunkirk in poi si voglia unicamente concentrare sull’intreccio cervellotico del suo impianto narrativo, costruendogli attorno una spettacolarizzazione visiva sempre più ambiziosa e sperimentale che possa sopperire alle carenze a livello di drammaturgia, o a negarle come vorrebbe far credere lui.
L’approccio sempre più razionale, scientifico, tecnico, freddo al mezzo cinematografico sembra quindi la nuova direzione per Nolan nel radicalizzare la sua poetica sinergicamente e morbosamente attaccata al “sistema Cinema”, infatti per tutta la pellicola la grande tecnica del cineasta sprigiona tutta la sua follia visiva soprattutto analogica nel gestire gli effetti speciali e tutto ciò non fa che confermare il suo enorme talento, ma anche i suoi più grandi difetti.

L’idea di costruire uno spy movie atipico nel panorama mainstream a Hollywood è di per sé lodevole e anche geniale nel soggetto di partenza, peccato che l’esecuzione non soddisfi l’ambizione stessa del regista risultando confusa, inutilmente cervellotica e maldestramente didascalica mescolando l’approccio analitico con quello sensoriale-allegorico.
La confusione generale di questi due approcci che seguono tempi e ritmi completamente diversi, richiedono da parte dello spettatore una doverosa seconda visione non tanto per apprezzare al meglio i dettagli nelle inquadrature e il significato intrinseco dei sottotesti disseminati dall’autore, ma ad una vera e propria risoluzione di un enigma che non nobilita affatto la drammaturgia.
A questo punto la frase “Non cercare di capire, sentilo” non può che risultare contraddittoria ed inefficiente visto che Nolan mescola e confonde due approcci diametralmente opposti, ponendo lo spettatore in un limbo in cui è forzatamente obbligato a comprendere lo spettacolo estetizzante anche per via dei famosi “spiegoni” che aggiungono ulteriori dubbi senza però far interiorizzare il tutto in via allegorica e drammaturgica, riducendo di conseguenza la profondità della messa in scena in un mero esercizio di stile roboante e frastornante.

Sia chiaro, ad una seconda visione molti intrecci e dettagli inerenti alla trama si comprendono meglio, ma, sarà che non sono bravo nel decifrare le trame criptiche e complesse, a mio avviso Tenet necessita di una terza e quarta visione per essere compreso a pieno non tanto nella sua drammaturgia che rimane comunque abbastanza basilare e accettabile, ma nei suoi dettagli narrativi che richiedono analisi approfondite per comprendere più la logica che le suggestioni (e dunque i relativi simbolismi) della storia presentata da Nolan.

La trama di per sé ripercorre quella di un normale film di spionaggio alla James Bond, in cui il Protagonista, (non ha un nome) una spia americana che serve la causa di TENET (organizzazione del futuro che aiuta i “buoni”), deve impedire che un oligarca russo di nome Andrei Sator metta mano su un algoritmo che può cambiare l’entropia del mondo ovvero modificarne le sue proprietà temporali e spaziali per sempre. 
Tutto ciò va impedito perché la maggioranza della società del futuro vorrebbe distruggere quella del passato in quanto colpevole del riscaldamento globale, della siccità dei fiumi, dell’innalzamento degli oceani e di altre calamità naturali imputabili all’uomo. L’unico modo per il futuro di distruggere il passato (e dunque cambiarlo) è sfruttare la capacità entropica di alterare il tempo e la dimensione a noi conosciuta per raggiungere quella passata e distruggerla definitivamente con l’aiuto del pessimista e nichilista Sator.
Il paradosso temporale (del nonno) è che se quelli del futuro uccidono quelli del passato, allora i primi non possono esistere senza l’esistenza dei secondi. 
Per fermare questa follia il Protagonista si fa strada insieme al suo collega Neil sfruttando l’astio della moglie dell’oligarca, Kat. Potendo contare sul ruolo della donna ormai vessata dal marito, i due agenti segreti si possono così avvicinare a Sator per mandare in fumo il suo piano diabolico smontando l’algoritmo in grado di alterare l’entropia della Terra che potrebbe annichilire tutta l’umanità.

L’impronta fantascientifica che Nolan vuole dare a questa avventura rocambolesca di stampo spionistico è sicuramente l’aspetto più interessante di tutto il lungometraggio, soprattutto perché il viaggio nel tempo viene presentato attraverso leggi della fisica come l’entropia in cui oggetti e persone vanno indietro nel tempo attraverso marchingegni del futuro, diventando di fatto “inverti” ovvero materia capace di viaggiare indietro nel tempo dove però la realtà circostante la si vede andare anch’essa indietro nel tempo. 
La messa in scena è di per sé molto particolare e forse mai vista sul grande schermo, e di sicuro l’impatto visivo e “logico” richiede un’alta concentrazione da parte dello spettatore. L’intreccio narrativo di stampo palindromo come il nome dato a questo film si incastra perciò in sequenze d’azione spettacolari soprattutto quelle montate in “reverse” quando si intrecciano due linee temporali differenti, regalando sequenze d’azione molto interessanti sul piano registico in cui forse Nolan in questo film raggiunge l’apice.
Allo stesso tempo però, questa spettacolarità visiva e palindroma non risulta sempre chiara, e anche ad una seconda visione si percepisce una confusione visiva che disorienta narrativamente il corso degli eventi, ponendo lo spettatore in una condizione di estrema confusione, frustrazione e scarsa empatia con i personaggi immersi in questo enigma temporale.

Il cast a supporto di questa complessa e forse confusa narrazione non spicca infatti per carisma e recitazione, dove chiaramente sono stati diretti come dei “robot” funzionali allo svolgersi degli eventi proprio come in Dunkirk, e se il gioco di prestigio narrativo risulta anch’esso confuso e poco impattante per la scarsa rilevanza emotiva e drammaturgica, allora il film a fine visione fallisce sia nel lasciarti un’emozionante avventura da ricordare sia una storia stratificata pregna di sottotesti su cui riflettere.
Il risultato è dunque uno spy movie classico inutilmente complicato da una narrazione cervellotica che alla fine diventa l’unico elemento “sensazionale” nella totalità di un soggetto che veramente poteva regalare un mezzo capolavoro in salsa nolaniana. E invece ritorna lo spettro della furbissima trottola di Inception.
Concentrarsi sui cavilli narrativi e sulle regole (fanta)scientifiche di Tenet restano dunque le uniche chiavi di lettura potenzialmente intriganti da sviscerare, anche perché tutta la sottotrama sulla genitorialità problematica (uno dei cardini della poetica nolaniana) di Kat e Sator per la potestà del loro figlio in un mondo decadente diviso tra ottimisti disposti a lottare per un mondo migliore e pessimisti rassegnati nel distruggere un mondo marcio condannato all’estinzione, viene svilito da interpretazioni stereotipate inserite in un incastro narrativo troppo alienante per dare risalto ad un bel confronto genitoriale.
La centralità del Protagonista e di tutta la combriccola di Neil poteva benissimo essere spostata sul personaggio di Kat nel suo confronto con Sator, ponendo dunque una maggiore enfasi sulla psicologia e sulla drammaticità di una protagonista femminile imprigionata in un mondo sconvolto da battaglie spazio-temporali guidate da uomini insensibili e crudeli. L’empatia per il personaggio e le suggestioni narrative personalmente avrebbero dato un risultato molto più coinvolgente e spettacolare anche per il salvataggio di un figlio che Nolan oscura malamente per concentrarsi maggiormente sulle sequenze action militari che alla lunga diventano uno spettacolo vuoto e senza senso, anche perché l’apocalisse che dovrebbe abbattere l’essere umano non si avverte minimamente nella battaglia finale. Complice il fatto che forse manca anche una rappresentazione geopolitica degli schieramenti che secondo me avrebbe dato maggiore credibilità e fascino allo scontro tra le forze del “bene” e quelle del “male” tra passato, presente e futuro.

Insomma, Tenet resta comunque un blockbuster di tutto rispetto anche solo per un’invenzione visiva davvero mai vista prima d’ora con viaggi nel tempo geniali nella loro concezione originaria, ma registicamente confusi in alcune sequenze, facendo perdere parecchio fascino agli incastri narrativi e in sostanza anche ad una drammaturgia con qualche scheggia di follia che poteva veramente elevare intellettualmente un’opera votata anche per l’intrattenimento delle masse.
Purtroppo la sfrenata ambizione di Christopher Nolan, che è poi è la sua stessa maledizione, lo sta portando in un’estremizzazione della sua poetica votata ad un perfezionismo controproducente votato più allo spettacolo puro che ad una reale profondità tematica, sottovalutando enormemente il ruolo dei personaggi che sono il giusto dinamismo emotivo per elevare una drammaturgia altrimenti destinata a diventare un enigma comprensibile soltanto a lui stesso.

La pandemia data dal coronavirus sta notevolmente impattando l’industria hollywoodiana e dunque anche la disponibilità di elargire budget consistenti. Forse tutta questa situazione più ridimensionata e precaria potrà essere un’ottima base per concentrarsi su un progetto meno dispendioso ma più concentrato, umile, economico, empatico e meno cervellotico senza necessariamente voler per forza sorprendere lo spettatore con trovate pretenziose che non hanno né capo né coda.
Bisogna ritornare dunque alle origini quali Memento e The Prestige, di fatto le sue opere migliori e guarda a caso girate con budget bassissimi che mirano ad una tematica e la sviscerano egregiamente.
Se non seguirà questa strada rischia di diventare schiavo delle sue stesse ambizioni, della sua stessa poetica e della sua stessa estetica diventando la macchietta di sé stesso. Un progetto più ridimensionato ma più centrato è quello che ci vuole dopo spettacolarizzazioni milionarie inutili e vuote contenutisticamente. O magari sono io che non riesco a comprendere la grandezza di Tenet e alla terza/quarta/quinta revisione cambierò totalmente il mio giudizio. 

Di sicuro è un progetto sperimentale che mi spinge alla revisione e che intrattiene alla grande per le sue due ore e mezza, nonostante tutti i suoi evidenti difetti. Ed è meno pretenzioso di Dunkirk e Inception e questo mi basta per rivederlo ben volentieri una terza volta. Sempre per i motivi sbagliati ovviamente. Come la sua eccezionale colonna sonora.

Voto 8-

Proprietario e penna del sito "L'angolo di Gio", blog cinefilo dedicato alla Settima Arte e in parte alle serie tv. Dopo anni ad aver coltivato la propria passione per il Cinema, matura la passione per la scrittura che lo porta a recensire film non solo nei suoi canali social e nel suo blog, ma anche per il sito filmtv.it (ormai top user) e a collaborare per la prima volta con il sito d'animazione "Daelar Animation" gestito da Isaia Silvano. Nel tempo libero oltre a vedere e leggere tutto ciò che riguarda la Settima Arte senza escludere la frequentazione abituale della Sala, si informa, studia e legge saggi e video di Geopolitica (i tomi di Limes abbondano nelle sue librerie). Da sempre ha un sogno nel cassetto: scrivere un libro monografico sulle sorelle Wachowski, le sue registe preferite in assoluto.

2 Comments

  • Simone S.

    Complimenti per la tua analisi, è appena uscito il primo trailer di Oppenheimer ed è pura estetica nolaniana. Fra qualche mese tutti i dubbi saranno cancellati.

    • Giorgio Burani

      Grazie mille! Nolan è un regista che apprezzo molto nonostante alcune delusioni, infatti su Oppenheimer sono molto curioso, ma allo stesso tempo temo che possa “strafare”. Il trailer è tanta roba e sono contento che finalmente Cillian Murphy ha un ruolo da protagonista in un film di Nolan. Vedremo, magari ci farò una recensione a riguardo 😉

      Per curiosità: come hai trovato il mio blog?

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *