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Cinema,  Retrospettiva

Retrospettiva Neill Blomkamp

Tempo di lettura: 15 minuti

Una delle promesse Sci-Fi più interessanti degli anni 2000 che col solo District 9 aveva già delineato un nuovo percorso per una futura fantascienza più adulta e riflessiva nei confronti della società.
Purtroppo con l’avanzare degli anni il regista sudafricano si è visto eclissare la sua popolarità con le successive pellicole, riducendosi oggi a dirigere cortometraggi per la sua stessa casa di produzione indipendente, sperando un giorno di tornare a dirigere un film per il Cinema con un ipotetico sequel/revival di Alien. L’insuccesso sia di pubblico che di critica lo si può riscontrare quindi nell’evoluzione dei blockbuster degli ultimi anni, che essendo perlopiù sequel, revival o reboot di franchise già esistenti, fanno facilmente breccia nella nostalgia del pubblico e poco nel loro spirito critico.
Neill Blomkamp si ritrova così disoccupato in una Hollywood priva di idee e più volenterosa nel finanziare progetti derivativi e nostalgici che economicamente risultano più sicuri e remunerativi, rigettando totalmente il rischio della creatività e della sperimentazione cinematografica.

Il regista sudafricano non può di certo scendere a facili compromessi con le major hollywoodiane, proprio perché si era contraddistinto per la sua fantascienza sporca, proletaria, urbana, semi documentaristica, in cui analizzava perfettamente la società odierna nelle sue diseguaglianze e violenza nel trattare il prossimo. Difatti la sua poetica ispirata al Cinéma Vérité è ciò che lo contraddistingue nella sua peculiare messa in scena fantascientifica, che unendo sia le caratteristiche del documentario che quelle del Cinema, rende emotivamente vicine e similmente realistiche le vicende che si susseguono nei suoi lungometraggi.

L’approccio ibrido quasi d’inchiesta del regista nel raccontare il mondo che lo circonda, si coniuga perfettamente alla sua chiara critica socialista all’imperante neoliberismo del XXI secolo, dove quest’ultimo grazie allo sfruttamento dell’elevata tecnologia, troverà sempre un modo efficace per opprimere i ceti più poveri per guadagnare ancora più potere e ricchezza.

I mondi che Neill Blomkamp crea nei suoi film sono tristi, sporchi, logori e precari per i suoi protagonisti, mentre per i suoi antagonisti riserva sempre un ambiente pulito, agiato, tecnologico ma freddo, apatico, falso e sempre relegato ad una logica classista volta a schiacciare le pulsioni rivoltose del popolo insofferente per la sua estrema precarietà. Il contrasto è ciò che il regista vuole evidenziare attraverso il suo sguardo critico e per certi versi satirico nei confronti di un’apparente società moderna all’apice del suo progresso, ma che conserva al suo interno i germi di un crescente malessere sociale che prima o poi sovvertirà uno status quo ormai sempre più vicino ad un punto di rottura.

Tuttavia tutti questi sottotesti ricchi di spunti di riflessione non stimolano per nulla l’intelletto del pubblico contemporaneo, che preferisce privilegiare sempre di più un superficiale intrattenimento cinematografico nostalgico e sicuro, glissando completamente pellicole fantascientifiche che invece potrebbero essere tranquillamente puro intrattenimento, veicolando però anche un messaggio sociopolitico non indifferente.

Spero un giorno che Neil Blomkamp possa ritornare nei circuiti cinematografici almeno con un’opera derivativa come il franchise di Alien, che rappresenterebbe comunque un buon compromesso per rilanciare la sua carriera e chissà, magari regalarci in futuro un’altra perla Sci-Fi originale fuori dagli schemi mainstream hollywoodiani.

Concludo l’introduzione alla mia retrospettiva su Neill Blomkamp elencandovi la mia citazione preferita, la mia scena preferita e la mia colonna preferita all’interno della sua filmografia, oltre alle ovvie recensioni sui suoi singoli film ordinati per data di uscita.

Come sempre vi invito a fine articolo di dire la vostra nell’area commenti e vi auguro una buona ed appassionante lettura su un regista che merita, nonostante la sua breve carriera, una nuova rivalutazione e riabilitazione nel panorama della Settima Arte.


La mia scena preferita:


La mia colonna sonora preferita:


La mia citazione preferita:

Discussione tra il creatore Deon e la sua creazione Chappie riguardo l’esaurirsi della batteria di quest’ultimo nel film Humandroid…

Chappie: Sei il mio creatore… Mi hai creato per farmi morire?
Deon:
Io… non ti ho creato per farti morire, Chappie.
Chappie:
Io voglio vivere. Voglio stare qui con Mami. Non voglio morire.


District 9 (2009) di Neill Blomkamp

immagine per la recensione di district 9 di neill blomkamp

Oggettivamente il miglior film del regista sudafricano, che attraverso il suo sguardo “neorealista” sfrutta il genere della fantascienza per costruire un documentario fittizio riguardante le sorti di un gruppo di profughi alieni segregati nel Distretto 9 di Johannesburg, destinati però ad emigrare forzatamente in un altro distretto più spartano per via delle crescenti proteste xenofobe degli abitanti umani della città.

Il film richiama chiaramente le vicende legate all’apartheid a Città del Capo che ha portato alla distruzione del Distretto 6, dove migliaia di civili, soprattutto di etnia africana, hanno dovuto abbandonare le loro case per emigrare in una zona più desertica ed inospitale. Il parallelismo con District 9 è dunque abbastanza palese e Neill Blomkamp riesce perfettamente a contestualizzare la storia della sua nazione in un contesto fantascientifico aggiornato ai tempi moderni, che ancora trova molta attualità nel panorama non solo sudafricano, ma anche internazionale.

L’utilizzo sapiente del mockumentary dona alla pellicola una veridicità unica e realista nella rappresentazione della segregazione razziale di questi alieni dall’aspetto simile ai gamberi, che confinati ai margini della periferia, vivono in una situazione di estrema precarietà tra violenza, criminalità, discriminazione e oppressione governativa. L’ecosistema sporco e logoro in cui vivono gli alieni illustra comunque una realtà proletaria e vivibile, dove quest’ultimi hanno costruito case, famiglie ed elaborato un metodo di scambio commerciale per comprarsi elettrodomestici, cibo, vestiti e armi necessari per la loro sopravvivenza.

Lo sguardo neorealista del regista permette non solo di rappresentare un contesto sociale degradante molto comune nelle periferie del Sudafrica, ma ricerca anche un certo grado di empatia da parte del pubblico nel comprendere la condizione umiliante e spaventata di una qualsiasi popolazione profuga in terra straniera. La chiave di lettura per comprendere tutte le critiche sociopolitiche del lungometraggio riguardo la xenofobia, la segregazione razziale, il militarismo e il capitalismo imperante va dunque ricercata unicamente nell’empatia insita in tutti noi esseri umani e che viene rappresentata perfettamente dall’umanità del protagonista del film: Wikus Van De Merwe.

La cura e il rimedio che offre Neill Blomkamp alla natura così egoistica e violenta dell’essere umano, risiede unicamente nella nostra razionalità nel comprendere una problematica osservandola da prospettive diverse. La soluzione alla sempre più crescente tensione con gli alieni artropodi non può essere dunque compresa dalla mente istituzionalizzata dell’ingenuo protagonista – incaricato dello sgombero forzato della popolazione extraterrestre – che necessita quindi di un ribaltamento sia sociale che antropologico per osservare la realtà del Distretto 9 da un punto di vista mai preso in considerazione, in quanto Wikus Van De Merwe annebbiato dalle comode ma violente indicazioni della multinazionale militarista per cui lavora.

Il crollo psicologico e la mutazione aliena di Wikus Van De Merwe gli consente finalmente di vedere il mondo per quello che è realmente, dove la sua stessa azienda in cui lavorava ormai vede in lui un business miliardario per sfruttare le armi ipertecnologiche degli alieni, visto che quest’ultime sono attivabili unicamente grazie al DNA degli extraterrestri artropodi. La discesa nella dolorosa mutazione aliena provoca comunque una lenta rinascita della sua natura più altruistica ed empatica, che gli permette di conoscere la vera sofferenza dei cosiddetti “gamberoni” e di costruire un legame unico con un alieno del posto, aiutandolo a trovare la soluzione per far ripartire l’enorme navicella spaziale della sua gente stanziatasi sopra Johannesburg nel lontano 1982.

Il messaggio di tolleranza, di unione, di empatia e di altruismo che traspare per tutta la pellicola è incredibilmente rappresentato nella dolorosa ma liberatoria odissea mutagena di Wikus Van De Merwe, che sul finire di un percorso di redenzione, forse un giorno troverà una liberazione definitiva al suo dramma esistenziale.

Un film semplicemente sublime e drammatico nel narrare un percorso difficile ma possibile per il genere umano, che davanti al prossimo non dovrebbe sfruttarlo, ma aiutarlo ad emanciparsi vivendo in serenità con la collettività. La regia ibrida tra il mockumentary e lo stile classico del Cinema dona un certo neorealismo moderno al film che rende ancora più credibile e suggestivo l’uso degli effetti speciali per la messa in scena degli alieni, che quasi uno ci crede che possa realmente essere accaduto un fatto del genere in Sudafrica.

Insomma, è la magia del Cinema, è la versatilità della fantascienza, è lo sguardo autoriale dell’artista che dà forza a questo gioiello Sci-Fi moderno. Un esempio cinematografico da seguire per far riflettere e non semplicemente per mostrare.

Voto: 9+

Elysium (2013) di Neill Blomkamp

immagine per la recensione di elysium di neill blomkamp

Neill Blomkamp per la prima volta decide di spostarsi dalle periferie del Sudafrica alla suburbia della California, esplorando le complessità dei flussi migratori ispanici per costruire un worldbuilding distopico funzionale alla sua dichiarata critica al classismo sempre più crescente negli Stati Uniti.

La trama racconta le sorti di una California futuristica ormai sull’orlo della carestia, dove non esistono più città ma soltanto un’immensa distesa di baraccopoli segnate dalla violenza e da un’enorme precarietà sia igienica che lavorativa. Di fronte a questa situazione drammatica planetaria, le famiglie più ricche della Terra vivono su Elysium, una stazione orbitante nello spazio dotata delle più moderne tecnologie che garantiscono un ecosistema terrestre paradisiaco e risorse illimitate. La disuguaglianza sociale è lampante, infatti l’aumento delle tensioni sia migratorie che politiche portano inevitabilmente all’uso del pugno di ferro da parte del governo conservatore di Elysium, che non esita ad usare la violenza sia preventiva che punitiva per mantenere il precario status quo. Il sovvertimento alla rigida regola gerarchica instaurata dalla borghesia spaziale non può venire altrimenti che dal basso ovvero dal pianeta Terra, dove decine di migranti clandestini ogni anno provano a salire su Elysium, fallendo miseramente a causa dei rimpatri e della distruzione delle loro navi spaziali da parte dei mercenari affiliati clandestinamente al Ministro della Difesa Jessica Delacourt. L’unico modo per cambiare il sistema tirannico della turbocapitalista Elysium risiede nella disperazione e nella tenacia di Max Da Costa, operaio sottopagato esposto ad una radiazione gamma in fabbrica che lo lascia solamente con 5 giorni di vita.

Il messaggio rivoluzionario socialista di Neill Blomkamp risulta chiaro e conciso, nella quale descrive perfettamente una lotta di classe al limite della sopravvivenza, in cui il classismo regna sovrano segnando definitivamente l’inizio della fine dell’umanità. Il genere umano nonostante abbia distrutto l’ambiente del proprio pianeta, ancora si ostina a dividersi in classi e privilegi fini a sé stessi, sacrificando la collettività della specie in favore di un individualismo edonista fatto di materia e di poco spirito.

La fede e la sofferenza del proletariato viene portata sulle spalle del tragico protagonista messicano Max Da Costa, che ormai ad un passo dalla morte decide di sacrificare sé stesso per salvare l’umanità dalle disuguaglianze e dalla miseria della malattia, quest’ultima noncurante dell’appartenenza politica dell’individuo infetto. In contrapposizione all’ideale collettivista e socialista del protagonista, si hanno due ideologie politiche spesso complementari, ma che nel lungo termine una sicuramente prevarrà sull’altra in quanto entrambe individualiste nel raggiungere lo stesso scopo: la destra conservatrice e l’estrema destra.

La prima è rappresentata dalla spietata Ministra della Difesa Jessica Delacourt, desiderosa di accrescere il suo potere mostrando una linea più dura sui migranti, ambendo addirittura ad un colpo di stato per rimuovere le resistenze liberal moderate per ottenere il pieno controllo delle preziose risorse di Elysium. Il lato conservatore della leader non si fa scrupoli ad utilizzare milizie esterne per eliminare i migranti clandestini e finanziare golpi militari con l’aiuto degli industriali turbocapitalisti. La sinergia con le fazioni più estremiste non necessariamente si traduce in un assoluto controllo politico sulle loro pulsioni più violente ed egoistiche, che potrebbero nel lungo termine sovvertire lo status quo autoritario.

La seconda è incarnata dall’agente C.M. Kruger, capo di una milizia di mercenari assoldati dai privati per seminare terrore e distruzione nelle classi più povere. Il vanto del leader è l’uso della violenza sul prossimo, sfruttando la brutalità del militarismo per spaventare le masse ed incassare il denaro proveniente dai loschi clienti. La simbiosi con la destra conservatrice non preclude il fatto che un giorno il fascismo reazionario possa cogliere la minima opportunità per sovvertire lo status quo autoritario della prima, instaurando successivamente un regime più violento e totalitario.

La battaglia sia fisica che ideologica in questa eterna lotta intestina nel genere umano, illustra chiaramente uno scenario drammatico e disperato nel raggiungere un equilibrio pacifico che possa risollevare il benessere collettivo dell’umanità. La lotta di classe tra protagonisti ed antagonisti è fondamentale per comprendere la via per abbattere il sistema diseguale del neoliberismo moderno, che può percorrere soltanto due strade: una violenta ed egoistica, ovvero attraverso il fascismo, mentre un’altra via più libertaria e collettivista attraverso il socialismo.

Il dilemma filosofico sociopolitico che offre Neill Blomkamp è semplicemente straordinario e un’altra volta dimostra come il registra sudafricano abbia intuito perfettamente le due facce della stessa medaglia della società del XXI Secolo, che sull’orlo di una crisi ambientale, culturale e politica, ha necessariamente bisogno di un cambiamento radicale attraverso metodi e ideali pacifici che prevedano misure eque e ragionate per rispondere alle esigenze della collettività. Lo sguardo socialista dell’artista non preclude affatto una polarizzazione della sua ideologia, anzi, offre una visione a 360 gradi sulle conseguenze delle varie ideologie messe in atto dai vari personaggi del lungometraggio.

Tuttavia la componente sociopolitica e per certi versi antropologica del regista non può salvare una pellicola che risente di un’eccessiva semplificazione degli eventi nella seconda parte del film, in cui l’azione blockbusteriana hollywoodiana viene portata fino allo sfinimento, eliminando così potenziali approfondimenti tematici e narrativi sulla struttura di Elysium.

Nonostante queste sbavature che hanno rovinato in parte la narrazione della pellicola, Neill Blomkamp dimostra di essere in grado di portare avanti la sua poetica rivoluzionaria anche in terre straniere.

Voto: 7.5

Humandroid (2015) di Neill Blomkamp

immagine per la recensione di humandroid di neill blomkamp

Se District 9 rappresenta oggettivamente il miglior film di Neill Blomkamp, Humandroid rappresenta soggettivamente il miglior film del regista. Emotivamente parlando è anche uno di quei pochi film che è riuscito a farmi versare una lacrimuccia attraverso la sua narrazione, così apparentemente tecnologica, ma così profondamente umana.

L’elemento centrale della pellicola riflette principalmente su una possibile umanità di un’intelligenza artificiale e se quest’ultima sia in grado di convivere con i drammi esistenziali del suo creatore, l’uomo, condividendone sia vizi che virtù. Può Chappie diventare il demiurgo del proprio destino o sarà inevitabilmente condannato alla sua semplice funzione da robot?

La fatalità della mortalità è infatti il fulcro della filosofia di Humandroid, che dipinge una società moderna che ormai ha azzerato la criminalità grazie all’implementazione di robot corazzati polizieschi al posto dei poliziotti umani, riducendo di conseguenza il rischio di possibili “incidenti” sul luogo di lavoro. In apparenza la popolazione dovrebbe essere protetta da questo sistema algoritmico securitario, ma al suo interno risiedono i germi nascosti della sofferenza di una società rigidamente controllata, che può riscontrarsi nella frustrazione della criminalità, nella desiderosa libertà creativa del creatore del sistema securitario (Deon) e nell’invidia nei confronti di quest’ultimo da parte di un collega militarista (Vincent Moore) che vorrebbe invece vendere arsenali più violenti al corpo di polizia.

Per rispondere a queste insofferenze discutibili ma intrinsecamente umane, il tutto risiede nella creazione di Chappie, un modello destinato alla rottamazione, ma che viene salvato e riprogrammato dal suo creatore Deon per avere una coscienza propria e dunque destinato a vivere come un essere pensante dotato di libero arbitrio. Il viaggio che percorre Chappie ricalca similmente quello di un essere umano, che coi suoi primi passi innocenti da infante comincia successivamente a crescere, a sviluppare delle emozioni e delle idee, ad affrontare le sfide dell’ambiente esterno e decidere infine quale strada intraprendere per diventare una buona persona.
Inizialmente il robot apprende i primi insegnamenti morali e linguistici dal suo creatore, che definiscono inevitabilmente la sua individualità curiosa ed innocente. Dopo la nascita nella culla protettiva ed idealistica, il bambino viene strappato dal suo comodo nido idilliaco da un gruppo di criminali, in cui i due leader, Ninja e Yolandi, rappresentano un punto fondamentale della sua crescita in quanto incarneranno la figura paterna e materna del robot, portandolo ad una realtà terrena fatta di sofferenze e di ingiustizie. L’interessante disamina del ruolo genitoriale dei due criminali volenterosi di sfruttare il robot per controllare il sistema securitario della polizia, è incredibilmente autentico e pedagogico, in quanto esplica chiaramente tutti i vantaggi e i rischi del ruolo paterno e materno sull’educazione di un figlio.
Ninja incarna il lato più duro della paternità, mostrando tutto il suo machismo e la sua negligenza nel temprare il carattere gangster del proprio figlio, che in un contesto violento e ingiusto come la periferia deve imparare a difendersi autonomamente dai pericoli della malavita.
Yolandi d’altro canto, incarna il lato più dolce della maternità, preoccupandosi di essere protettiva nei confronti di Chappie e aiutandolo a sviluppare dei sentimenti empatici e gentili nei confronti del prossimo.
La contraddizione tra la durezza di Ninja e la gentilezza di Yolandi sono fondamentali per sviluppare la psiche di Chappie che, partendo da una morale nobile fornitagli da Deon, comincia a sviluppare dei sentimenti autonomi necessari per la sua crescita interiore per distinguere il giusto dallo sbagliato, il bene dal male, la vita dalla morte.

Difatti, il conflitto esistenziale di Chappie è incredibilmente variegato e sapientemente illustrato per tutta la pellicola, dove viene mostrato chiaramente come l’ego dell’essere umano tenti di sopprimere a tutti i costi il lato altruistico e compassionevole del robot, che dinanzi alla violenza, alle bugie e alla folle sete di potere dell’essere umano, deciderà sempre di compiere la scelta più razionale per il bene della collettività, dimostrando al mondo intero che un’intelligenza artificiale può essere sensibile e irascibile quanto un essere umano.

In antitesi al sofferente fardello esistenziale del robot subentra il nemico finale, l’ultima sfida da affrontare per concludere definitivamente l’evoluzione psicologica di Chappie: il militarismo. Se la criminalità ha mostrato figuratamente le due facce della stessa medaglia della vita, il collega militarista di Deon non vuole mostrare nessuna faccia, nessuna interpretazione, nessuna speranza per il giovane robot senziente, perché il suo unico scopo è il profitto. Il capitalismo nella sua forma più pura e violenta, il classismo tanto decantato dalla fascia neoliberista del nostro pianeta, l’egoismo senza freni che trae tutta la sua forza nella sua smisurata sete di potere e di ricchezza. Ed è sotto il peso dell’edonismo e della potenza di fuoco che alla fine Vincent Moore soccombe di fronte all’intelligenza e alla versatilità del pensiero di Chappie, che grazie all’ingegno della scarsità di risorse riesce a sconfiggere il suo nemico e salvare la vita della sua famiglia criminale adottiva e quella di Dion.

La risposta filosofica definitiva al dramma esistenziale posto in Humandroid trova finalmente una risposta nell’amore panumano di Chappie, che gli consente di attuare un transumanesimo considerato impossibile dal suo creatore, che incredibilmente invece ridona vita a quest’ultimo e alla defunta “Mami”.

Insomma, Chappie siamo noi, rappresenta tutte le tappe che ogni essere umano ha compiuto nella propria vita, e che può migliorare ancora sé stesso se intraprenderà la strada dell’inclusione sociale.

Neill Blomkamp ancora una volta riesce perfettamente a confezionare un’altra opera fantascientifica grandiosa, che attraverso un’espressività artificiale riesce a comunicarti più di mille parole.

Voto: 9

Gran Turismo (2023) di Neill Blomkamp

Il grande ritorno di Neill Blomkamp? Snì. O almeno, per me sì.

Chiariamoci, si tratta comunque di un marchettone indirizzato esclusivamente alle masse sulla falsa riga dei cine-videogame recenti come Detective Pikachu, Sonic e Super Mario Bros, ma la netta differenza con tutti questi lungometraggi senza arte né parte ricolmi di fanservice è, innanzitutto, il soggetto di partenza che si basa sulla storia vera – “impossibile” come recita la locandina del film – di un nerd videogiocatore di Gran Turismo che è diventato – dopo una serie di selezioni e competizioni in real life – un pilota professionista della Nissan per via delle sue grandissime doti videoludiche. Tutto ciò permette al lungometraggio di distanziarsi dalle regole stringenti e limitanti (leggasi “nerdoidi”) del videogioco, per diventare così un vero e proprio biopic sul mondo delle auto da corsa, consentendo così a Neill Blomkamp di avere maggiori margini di manovra nel dirigere questo blockbuster da 60 milioni di dollari. 

Pur non essendo né lo sceneggiatore né il produttore del film finanziato dalla Playstation Productions, il regista sudafricano assoldato dalla Sony Pictures riesce a dirigere con grande classe il “live action” di Gran Turismo, cercando di personalizzare l’opera focalizzandosi maggiormente sul tormentato esistenzialismo del protagonista, di cui ne mette in scena con tatto tutte le sue difficoltà relazionali sia con la sua famiglia che non vede di buon occhio il suo gaming sportivo, sia con il mondo delle corse spesso spietato e indifferente nei confronti della salute mentale dei suoi piloti. Ed è proprio in questi frangenti introspettivi che, Neill Blomkamp, riesce ad inserire il suo leggero tocco autoriale nel raccontare la storia di rivalsa di un outsider come capita in tutti i suoi film, dove i suoi protagonisti devono sempre rompere gli schemi del mondo capitalistico-tecnocratico che li opprime, fino a mutarsi anche fisicamente nel loro processo di emancipazione sociale ed individuale (simulatore videoludico vs forza g dell’auto da corsa). La costante presenza della macchina a mano, il montaggio serrato ed adrenalinico quasi “bourneano” nell’imprimere potenza all’azione (stupendi i dettagli sul motore dell’auto da corsa roboante) e, infine, l’esaltazione della componente della realtà virtuale del videogioco come “espansione dei cinque sensi” del protagonista al limite del fantascientifico, sono tutti gli stilemi tipici della regia di Blomkamp che riesce a piegare alla propria poetica, pur con tutti i limiti del biopic sulle gare automobilistiche, un blockbuster che poteva facilmente deragliare nell’ennesimo filmetto trito e ritrito tratto da un videogioco.

Ovviamente con Gran Turismo non ci ritroviamo né ai livelli drammaturgici di Rush e Le Mans ’66, né allo sperimentalismo geniale di Speed Racer e Redline, e neppure alle opere al 100% autoriali del regista, ma grazie alla buona sceneggiatura di Jason Hall e Zach Baylin, Neill Blomkamp riesce a conferire una grande umanità al racconto, senza ridurre il tutto ad una pletora di personaggi bidimensionali fanservice e ad un film con una serie di risvolti narrativi uno più infantile dell’altro. Difatti, la pellicola pur muovendosi negli stilemi classici dei film sull’automobilismo, riesce a non risultare anonima e banale grazie all’estro tecnico del regista sudafricano, il quale imprime tutta l’adrenalina e la sofferenza esistenziale che prova il suo protagonista reietto nel mezzo tecnico della cinepresa, che come un’auto da corsa sfreccia come una scheggia impazzita tra dettagli velocissimi e riprese aereodinamiche estremamente movimentate nel mostrare tutta la potenza e la pericolosità del mondo automobilistico. Il regista, però, proprio come un pilota da corsa, sa quando fermarsi e concedersi inquadrature fisse nelle pause riflessive, come i “tranquilli” campi e controcampi negli accesi – e allo stesso empatici – dialoghi tra il pilota di eSports e il suo fidato e burbero coach macchinista tuttofare Jack Slater (interpretato da uno splendido David Harbour), che Neill Blomkamp prende in particolare simpatia “proletaria” contrapponendolo al capitalista “illuminato” Danny Moore, interpretato da un gigioneggiante Orlando Bloom che mostra tutti i lati disumani di un sistema che ha occhi solo sul 0.1% e sull’immagine aziendale.

Insomma, Neill Blomkamp gira un marchettone con grande perizia e di fatto realizza il miglior film tratto da un’opera un’opera videoludica – non che la concorrenza sia così spietata, anzi, forse solo Silent Hill di Gans potrebbe farmi cambiare idea. La speranza è che il regista sudafricano, dopo questo film su commissione, possa ritornare ad opere più personali di stampo fantascientifico al cinema – Demonic (2021) purtroppo non è stato distribuito in Italia ma solo in home video (anche negli States) e sembra sia considerato unanimemente dai cinefili un film indecoroso – senza dover continuare a dirigere cortometraggi per YouTube o, peggio ancora, realizzare tantissime altre marchette come Gran Turismo che, seppur girate con grande mano, sviliscono il suo estro artistico che è sempre stato improntato ad un cinema fortemente autoriale, capace di portare avanti messaggi sociopolitici interessantissimi attraverso il genere fantascientifico. Il flop di Gran Turismo non promette bene, ma dato che è avvenuto questo magico ritorno al Cinema dopo 8 anni, è possibile che con qualche soldino intascato da Playstation Productions possa realizzare il tanto chiacchierato District 10 o, meglio ancora, un’opera fantascientifica del tutto originale e autoriale come sta facendo il suo collega Gareth Edwards (anch’esso inattivo da ormai 7 anni e con più marchette – realizzate comunque di stralusso – alle spalle) con The Creator in uscita il 28 settembre 2023. 

Lo stato di salute del genere fantascientifico – e anche di un certo cinema blockbuster autoriale – dipenderà esclusivamente da questi registi che, in un settore cinematografico dominato da franchise che pure floppano di fronte alla crisi cronica della Settima Arte, dovranno compiere il miracolo di far ri-innamorare il grande pubblico ad una certa tipologia di Cinema spettacolare, originale e riflessivo con un grande cuore per il racconto e le illimitate potenzialità visive – e non – della Settima Arte.

Voto 8

Proprietario e penna del sito "L'angolo di Gio", blog cinefilo dedicato alla Settima Arte e in parte alle serie tv. Dopo anni ad aver coltivato la propria passione per il Cinema, matura la passione per la scrittura che lo porta a recensire film non solo nei suoi canali social e nel suo blog, ma anche per il sito filmtv.it (ormai top user) e a collaborare per la prima volta con il sito d'animazione "Daelar Animation" gestito da Isaia Silvano. Nel tempo libero oltre a vedere e leggere tutto ciò che riguarda la Settima Arte senza escludere la frequentazione abituale della Sala, si informa, studia e legge saggi e video di Geopolitica (i tomi di Limes abbondano nelle sue librerie). Da sempre ha un sogno nel cassetto: scrivere un libro monografico sulle sorelle Wachowski, le sue registe preferite in assoluto.

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