bilancio 2019
Bilancio annuale,  Cinema

Bilancio 2019: l’anno delle sorprese

Tempo di lettura: 95 minuti

A differenza del bilancio 2018, il bilancio del 2019 è stato ricco di sorprese inaspettate anche dovute ad una mia iniziale ricerca ossessiva del meglio del 2019 visto che nel 2018 il mio fiuto raffinato e sviluppato da cinefilo ci aveva preso quasi sempre nella riuscita anche grandiosa di una pellicola. Questa mia sfrenata fiducia nei miei istinti cinefili ovviamente mi ha fatto incorrere in cocenti delusioni che mai mi sarei aspettato di ricevere, anche se non parliamo di ciofeche vere e proprie come l’anno scorso che per fortuna nel 2019 sono riuscito abilmente ad evitare (a parte una).
L’anno delle sorprese è dunque la descrizione più azzeccata per descrivere questa annata cinematografica che tra sorprese positive e negative, ha comunque cambiato la mia percezione sulla Settima Arte e il mio approccio alla sala.

In un certo senso sono diventato più critico verso il cinema commerciale soprattutto nel campo dei cinecomics visto che la qualità dal 2017 ad oggi è calata drasticamente anche nel MCU nonostante l’uscita molto attesa di Avengers Endgame, che a differenza di Infinity War, non è stato l’evento catalizzante di questo bilancio del 2019. Le eccezioni blockbuster comunque non sono mancate come l’ottimo Alita- Angelo della battaglia (di cui ho conservato un poster in camera) e l’inaspettatamente politico Joker della decadente DC Comics.
La parte migliore di quest’anno è dunque arrivata dai film d’autore e film semi indipendenti che ormai sembra che siano le uniche pellicole in grado di offrirmi qualcosa di veramente appagante a differenza di quelle di genere che quest’anno non sono state all’altezza delle mie aspettative come l’anime sopravvalutato di Makoto Shinkai ovvero Weathering with You.

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Devo ammettere però, che anche sul fronte autoriale ci sono state alcune “mezze delusioni” che mi hanno fatto partire particolarmente freddino nel 2019 come la mia cocente delusione sul Glass di M. Night Shyamalan in cui speravo in qualcosa di meglio, ma che nel complesso dovrei rivedere anche per capire se ho davvero compreso appieno alcune scelte apparentemente raffazzonate all’interno della narrazione della pellicola.
L’altro caso emblematico è quello di C’era una volta a…Hollywood di Quentin Tarantino che seppur superiore all’ultima opera di Shyamalan, non mi ha totalmente stregato come avrei sperato. Resta comunque una ottima pellicola e da rivedere più volte per comprendere a pieno il testamento del maestro del postmoderno per eccellenza.

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Per quanto riguarda le iniziative cinefile purtroppo la catena UCI Cinemas non ha rinnovato la sua iniziativa estiva del 2018, ma ha aderito insieme ad altri multisala al movimento Moviement che consiste nel attirare pubblico e proporre film tutto l’anno anche storici, ma che alla fine si è risolto in una normale distribuzione di blockbuster che francamente non mi ha cambiato nulla, anzi, mi è sembrata una sonora presa in giro in cui si riafferma lo status quo della decadenza delle sale italiane.
Per fortuna è arrivata la Cineteca di Bologna che come al suo solito è riuscita nella stagione estiva a riportare un po’ di cultura riproiettando cult del passato anche attraverso altri cinema all’aperto come l’Arena Puccini. A livello cinefilo sono quindi riuscito a recuperare film come Pulp Fiction, Dogman, Fight Club, Un affare di famiglia e infine Apocalypse Now (versione final cut) con la presentazione dal vivo a cura di Francis Ford Coppola.
La cultura cinematografica quindi non è per niente mancata, infatti soprattutto a causa di nuove pellicole anche introvabili nei multisala, è cambiato anche la mia abitudine nella frequentazione dei Cinema, spostandomi dunque dalla mia multisala di fiducia UCI Cinemas a vari cinema anche d’essai sparsi per il centro. E che mi hanno poi permesso di visionare alcuni dei film migliori dell’anno.

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L’anno 2019 è anche simbolico per certi versi visto che rappresenta la fine di un decennio (2010-2019), ma anche la fine per molti franchise storici che seguivo da tempo.
L’esempio più noto è senza dubbio l’uscita in sala di Avengers Endgame che oltre ad aver totalizzato il più grande incasso di sempre nella Storia del Cinema, ha segnato la fine della Infinity Saga iniziata nel lontano 2008 col primo Iron Man. Una conclusione più che degna che tra pregi e difetti comunque mi ha regalato forti emozioni grazie anche alla concitata partecipazione del pubblico in sala.
Un’altra fine ma meno gloriosa sul campo cinecomics è quella di X-men Dark Phoenix che segna la conclusione dell’universo mutante di casa 20th Century Fox iniziato nel lontano 2000 con il primo X-Men di Bryan Singer. Di sicuro l’ultimo capitolo del franchise ha sofferto in parte alla ristrutturazione produttiva a seguito dell’acquisizione della Fox da parte della Disney, ma soprattutto ad una qualità sempre più scadente della saga che negli ultimi 5 anni, a causa di una scrittura sempre più bislacca, non è riuscita a sfruttare a pieno il giovane cast ormai stanco e svogliato.
Per finire in decrescendo, la fine più amara e davvero straziante per un franchise che seguivo sin dall’infanzia, è stata quella di Star Wars che con l’ultimo capitolo della saga chiamato “L’Ascesa di Skywalker“, si sono raggiunti dei livelli talmente reazionari e cringe, che fanno crollare totalmente un mito e soprattutto la credibilità cinematografica dell’intera trilogia sequel sotto la direzione negligente della Disney.
Tutta questa mal gestione ormai chiara come il sole, dimostra come il cinema di genere e soprattutto quello commerciale siano privi di vere idee e costantemente derivativi, con il risultato finale di produrre pellicole con budget miliardari ma dalla sostanza (e anche dalla forma) superficiale e inconsistente.

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Tuttavia queste delusioni soprattutto blockbusterose sono state ben bilanciate da alcune pellicole locali e internazionali davvero sorprendenti che hanno trovato una fortunata distribuzione in Italia che mai mi sarei aspettato di apprezzare così tanto.
La pellicola più emblematica è sicuramente Parasite del regista sudcoreano Bong Joon Ho che ha sbancato i botteghini in Occidente portandosi a casa addirittura l’Oscar come miglior film. Una visione veramente rara e preziosa a mio avviso che per la prima volta mi ha permesso di vedere un film coreano in Italia, sperando in futuro che arrivino altri film asiatici a riempire il nostro mercato italiano.
La seconda pellicola degna di nota è svedese e si intitola Border – creature di confine, un urban fantasy semi horror diretto dal regista iraniano Ali Abbasi. Recuperato in un cinemino d’essai sperduto in centro, mi ha permesso di visionare un film svedese veramente particolare e sconvolgente, che chissà quando mi ricapiterà mai di rivedere.
L’ultima pellicola che mi ha veramente sorpreso e questa volta stranamente italiana, è stata Il Primo Re di Matteo Rovere che incredibilmente mi ha lasciato in estasi per la sua grandiosa venatura drammaturgica e storiografica. Finalmente un film italiano come si deve che non insegue il modello becero imperante delle commediole e drammoni da quattro soldi.
Un’ultima menzione spetta alla fortunata visione in sala di The Irishman di Martin Scorsese che mi ha permesso per la prima volta di assaporare un film in sala contemporaneo del maestro ed infine il grandissimo film esoterico pagano horror di Ari Aster che nel 2019 arriva con Midsommar.

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L’eterogeneità delle nazionalità dei film visti in sala e le sorprese di qualsiasi tipo di questo bilancio 2019 hanno segnato così la denominazione del titolo di questa annata cinematografica ricca di colpi di scena, che al netto di alcune delusioni, la rende comunque positiva anche per tutte le attività collaterali legate al Cinema che si sono evolute notevolmente come le mie recensioni sul canale Telegram, i video sul canale YouTube e le mie prime “monografie” sul mio profilo IMDb.

Concludo dicendo che vi ritroverete tutte le recensioni del mio canale Telegram elencate in ordine cronologico con alcune omissioni dei 31 film visti in sala nel 2019 secondo i parametri già elencati e spiegati nel mio articolo sul bilancio del 2018. In particolare non ho incluso Avengers Endgame e X-Men Dark Phoenix per via dei numerosi video dedicati sul mio canale YouTube. Il Traditore di Marco Bellocchio non l’ho incluso invece per uno di quei rari casi in cui non conoscendo molto bene l’autore e la materia del film, mi sono esentato dal recensirlo. Per Star Wars Episodio IX – L’ascesa di Skywalker invece gli dedicherò una rubrica a parte che già potete vedere parzialmente avviata su YouTube.

Bene, concluse le dovute riflessioni e premesse di questa rubrica annuale, vi auguro una buona lettura e vi invito a fine articolo di commentare per dire la vostra ed eventualmente accendere una discussione stimolante anche tra voi lettori.


Vice – L’uomo nell’ombra (2019) di Adam McKay

immagine della recensione su vice l'uomo nell'ombra

Vice l’uomo nell’ombra è il primo film di questa nuova stagione cinematografica del 2019 che ho scelto di vedere sia per i suoi contenuti sia per celebrare un anniversario informale, che sarebbe la visione di un classico biopic politico americano mirante esclusivamente all’Oscar a Gennaio.
Il mio pregiudizio però è abbastanza relativo, visto che ero molto interessato al film anche per il regista Adam McKay, che è lo stesso della Grande Scommessa, un grande biopic intelligente e complesso sulla crisi finanziaria del 2007-2008.

Il film narra quindi le origini di Dick Cheney, un politico americano repubblicano che dopo numerose scalate al potere a Washington, diventa il 46° vicepresidente degli Stati Uniti d’America durante l’amministrazione di George W. Bush, una delle più controverse presidenze della storia degli Stati Uniti.
La pellicola si focalizza perciò sulla figura di questo grande burocrate della Casa Bianca, descrivendo la sua personalità fredda e spietata, e di come sia riuscito da una carica simbolica come la vicepresidenza ad acquisire poteri impensabili, tanto da segnare per sempre la Storia degli Stati Uniti e del Mondo intero.

Adam McKay per narrare e per spiegare al pubblico questa complicata figura dell’uomo nell’ombra, decide di utilizzare uno stile molto ironico quasi dissacrante nella rappresentazione del potere e della politica americana, ricercando uno stile registico ibrido tra il mockumentary e la figura del narratore onnisciente per rompere i classici cliché del genere biografico.
Un’innovazione e una ricerca stilistica che potrebbe funzionare se sapientemente utilizzata, ma che purtroppo in questo film risulta autoreferenziale, pretenziosa, esagerata, se non addirittura invadente.

La metanarrazione diventa perciò confusionaria e frammentata nel corso del film, soprattutto nella sua prima parte dove l’uso eccessivo dei flashback e dei flashforward aliena la cognizione dello spazio e del tempo dello spettatore. I dialoghi anch’essi risultano impoveriti e superficiali con la presenza didascalica del narratore fuori campo, che si sostituisce in gran parte ai personaggi e agli eventi della storia. 
La linearità della trama viene perciò messa a dura prova da queste fasi di montaggio metanarrative e metacinematografiche, e non si capisce se il regista voglia effettivamente narrare la biografia di un personaggio o semplicemente farci un documentario sopra.
L’eccessivo uso di immagini e della tecnica del falso documentario pesano perciò sulla fruizione della pellicola, che si presenta con una forma ed una sostanza non perfettamente bilanciate.

Il film oltre a queste problematiche tecniche e stilistiche, vorrebbe presentarsi come una grande satira politica, ma che nella sua dissacrante ironia e nel suo didascalismo compulsivo, interrompe dialoghi importanti e l’esplicazione di eventi cruciali, come la scalata al potere di Dick Cheney e l’esplorazione del suo nucleo familiare.

Fortunatamente nella seconda parte il lungometraggio si concentra effettivamente sulla vicepresidenza di Dick Cheney, dove ci mostra tutti i suoi segreti nell’apparato esecutivo e di come sia stato un’abile “falco” (neocon) nell’agguantare il “pesce” (George W. Bush) grazie alla sua formidabile esperienza politica. La pellicola infatti, utilizza metafore allusive e divertenti nel descrivere l’inesperienza di Bush jr. e di come sia stato sfruttato dall’entourage di Cheney su numerose questioni delicate in materia di politica estera e interna. 
Nonostante l’utilizzo eccessivo della metanarrazione e del didascalismo nel corso del film, nella seconda parte il suo pacing è molto più dosato, esplicando chiaramente la politica repressiva dell’amministrazione Bush, come lo sfruttamento mediatico dell’attentato alle Torri Gemelle per invadere militarmente l’Afghanistan e l’Iraq, destabilizzando il Medio Oriente seminando odio e terrore. 
Gli ingranaggi del potere all’interno dell’establishment americano vengono perciò spiegati chiaramente nel corso del film, e la pellicola non ha peli sulla lingua nel rappresentare lo sfruttamento della propaganda da parte del governo per guadagnare consenso popolare, nascondendo di fatto crimini contro l’umanità e interessi collusivi concordati con le multinazionali petrolifere.

Un’altra nota favorevole al film spetta anche al grande cast da cui è composto, soprattutto Christian Bale che ha dovuto ingrassare e studiare le movenze di Dick Cheney per interpretarlo al meglio.
Sam Rockwell nella parte di Bush jr. è stato bravissimo nel rappresentare la personalità ingenua, istintiva ma soprattutto cowboyesca/texana del noto presidente, che fa da perfetto contrasto alla personalità fredda e calcolatrice di Dick Cheney. 
Un ultimo appunto anche per Amy Adams nella parte di Lynne Cheney, moglie apprensiva ma risoluta che ha definito il carattere del marito, rendendolo l’uomo nell’ombra che noi tutti (non) conosciamo. Una figura femminile forte e importante, che spesso si è sostituita al marito per sostenere le sue campagne elettorali, mantenendo alto il nome della famiglia. 
Un aspetto altrettanto importante, ma leggermente trascurato, è il rapporto che i due genitori Cheney hanno con le loro figlie, soprattutto sull’omosessualità di una di queste che va a scontrarsi con la tradizione repubblicana della famiglia. Il diverso approccio affettivo che hanno i due genitori nei confronti di questo tema, è determinante nel rappresentare l’umanità di questi ceti sociali alto borghesi americani, che mirano esclusivamente al successo e all’arricchimento personale.

In sostanza ci troviamo di fronte ad un biopic bipolare che vuole criticare e allo stesso tempo narrare una storia attraverso uno stile non convenzionale, ma che nella sua folle sperimentazione pseudo documentaristica non riesce a raggiungere il suo scopo ultimo, perdendosi nel corso della narrazione e lasciando lo spettatore ad un didascalismo superfluo sulla figura di Dick Cheney.
Adam McKay fallisce perciò nella sua pretenziosità nel raccontare la storia di questa controversa figura politica degli Stati Uniti, che in parte è accettabile, ma che necessita di una maggiore consapevolezza del mezzo del biopic. 
Questo aspetto forse è dovuto dal fatto che nella Grande Scommessa la sua dissacrante ironia funzionava nella rappresentazione del mondo dell’economia finanziaria, e il didascalismo lì era al servizio del mezzo cinematografico, unito ovviamente da una sceneggiatura originale che gli è valso l’Oscar.
Lo stile perciò va adattato al contesto in cui si opera e purtroppo in questo caso Adam McKay ha utilizzato un linguaggio anche troppo giovanile per divertire il suo ampio pubblico, esagerando nella forma e trascurando la sostanza. 
A questo punto meglio un biopic lineare e retorico come L’ora più buia del gennaio scorso, che ha dalla sua un focus maggiore per i dettagli e una trama più chiara e convincente.

Un biopic quindi pretenzioso, ma che dalla sua ha un grande cast e a tratti diverte.

Voto 7-

Glass (2019) di M. Night Shyamalan

immagine della recensione su glass

L’hype che avevo per questo film era indescrivibile dato che rappresentava il culmine di 19 anni di storia di una trilogia informale iniziata con Unbreakable (2000) e proseguita poi con Split (2016), in cui si indagava sul concetto di superomismo e sull’influenza pop dei fumetti nel mondo reale.

La reinterpretazione realistica ma allo stesso tempo soprannaturale/grottesca di questi temi, dava un tocco autoriale al genere cinecomic/supereroistico, e Unbreakable ne rappresentava il suo precursore moderno dove si assisteva alla genesi del supereroe grazie alla figura del villain che attraverso dubbi esistenziali e drammi familiari, donava alla pellicola venature filosofiche e riflessioni sulla vita stessa e di come quest’ultima potesse concepire esseri umani fuori dall’ordinario.
Questo discorso complesso sul genere supereroistico veniva così ripreso a sorpresa in Split, che apparentemente sembrava un classico thriller su un maniaco affetto dal disturbo dissociativo dell’identità che rapiva ragazzine, ma che nel corso della pellicola veniva messo in discussione da un’argomentazione psicologica-fantascientifica che trovava conferma nell’atto finale del film con la personalità della Bestia, un essere sovrumano immune al dolore e con un’agilità e riflessi tipici del regno animale.
L’anello di congiunzione tra questi due film pseudo supereroistici risiede perciò nel plot twist finale di Split, dove vediamo David Dunn, supereroe di Unbreakable, commentare i crimini della Bestia, ponendo le basi per un cross-over inaspettato ovvero Glass, titolo che coincide con l’alter ego di Elijah Price, il villain di Unbreakable.

L’attesa per questo confronto tra questi tre personaggi carismatici con alle spalle due filmoni del genere era perciò abbastanza attesa dai fan del regista M. Night. Shyamalan (autore della trilogia) visto che le premesse erano più che promettenti. 
Soprattutto in questa decade dove ormai i cinecomics regnano sovrani al Cinema che omologando il genere e saturandolo, ha portato tantissime persone a voler vedere un cinecomic differente dalla solita minestra mainstream delle major.
Condividendo questa logica di pensiero e avendo apprezzato i precedenti due film, non potevo che attenderlo con immensa gioia questo capitolo finale, ma che dopo la visione mi sono trovato inevitabilmente in mezzo a due binari completamente opposti tra loro: la stroncatura della critica e l’apprezzamento del pubblico.

Il dubbio, l’aspettativa esaltante, le recensioni positive e negative e l’ambiguità di M. Night Shyamalan, hanno inciso fortemente sul mio giudizio nei confronti del film che per quanto concettualmente mi sia piaciuto, trovo la sua esecuzione riuscita soltanto a metà.

Il problema maggiore infatti, si evidenzia nella gestione della trama, che se nel primo atto aveva un incipit intrigante incentrato sulla ricerca della Bestia da parte di David Dunn, si arena nel secondo atto nell’istituto psichiatrico dove si punta sull’introspezione dei 3 superumani ritenuti psicologicamente instabili, che a tratti mette in dubbio i poteri di quest’ultimi, ma che allo stesso tempo scade in dialoghi e riflessioni fine a sé stesse che già si erano affrontate nei precedenti film.
L’utilizzo dell’istituto psichiatrico come mezzo di introspezione psicologica ed elemento di sfida per i 3 protagonisti a tratti funziona se lo si osserva banalmente da un punto di vista fumettistico, ma se lo analizza in un contesto realistico, pecca in molti risvolti narrativi forzati, volti unicamente a proseguire una storia che stenta a voler partire.

Oltre alla malgestione del corso degli eventi del secondo atto, l’uso dei personaggi risulta anch’esso penalizzato, dove si privilegia la presenza quasi macchiettistica dell’Orda con tutte le sue molteplici personalità a discapito di personaggi secondari inseriti a forza nella narrazione, ma che dovevano ricoprire un ruolo fondamentale nelle vicende dei tre superuomini. 
Lo stesso David Dunn che doveva ricoprire il ruolo di supereroe benevolo nella trama, viene messo in secondo piano senza quasi nessun approfondimento psicologico, riemergendo solamente alla fine del film per ricoprire una figura muscolare generica.
Mr. Glass d’altro canto, risulta abbastanza credibile grazie all’interpretazione di Samuel Jackson, e l’ideazione del suo macchiettistico piano diabolico seppur con qualche forzatura, risulta consono e in linea con la sua geniale e malata mente criminale che sfrutta sapientemente le potenzialità della Bestia.

Il potenziale sprecato di questi personaggi inizialmente carismatici grazie alle loro corrispettive pellicole di origini, è imputato ovviamente alla mancanza di una vera e propria atmosfera che potesse amalgamarli nel loro scontro, e la sceneggiatura non sa se prendere una piega da classico cinecomic o puntare sul classico thriller alla Shyamalan. 
Questo dualismo abbastanza problematico emerge perfettamente nel personaggio della psichiatra Ellie Staple che cerca di studiare e disilludere i 3 superumani attraverso dialoghi e azioni che si alternano tra ingenue banalità e interessanti spunti di riflessione. Il suo dubbio ruolo nell’istituto psichiatrico si riflette anche nella gestione della struttura che sembra sguarnita di personale sia medico che militare in apparenza, come se il regista decidesse quando e come farli apparire durante le riprese sul set, rendendo le loro apparizioni innaturali agli occhi dello spettatore.

Questi difetti si riflettono soprattutto nel terzo atto che vede lo scontro fisico e psicologico tra i tre protagonisti, che seppur emozionante e carico di tensione, vede reazioni e posizionamento delle forze dell’ordine assai discutibili da un punto di vista tattico-strategico nel contenere la minaccia dei superumani.
Nonostante questi piccoli nei, il finale anti-climatico e anti-spettacolare che subiscono i nostri 3 protagonisti fuori dall’ordinario, assume un grande significato nella scena finale del film e il messaggio che Shyamalan vuole mandare agli spettatori è abbastanza profondo ed evocativo.

Insomma, M. Night Shyamalan ancora una volta dimostra di essere un regista talentuoso pregno di una grande autorialità e sensibilità artistica, ma che purtroppo è altalenante perché soffre delle sue stesse ambizioni anche in termini di budget,
Questa sua peculiare caratteristica lo porta perciò a produrre grandi pellicole come Il Sesto SensoThe VilllageThe VisitUnbreakableSplit, ma allo stesso tempo ciofeche come L’ultimo dominatore dell’Aria e After Earth
Questo dimostra come con budget ristretti riesca a dirigere grandi film thriller d’atmosfera proprio come il suo maestro di riferimento Alfred Hitchcock, mentre invece con grandi budget debba adattarsi a film d’avventura e d’azione che sono ovviamente al di fuori della sua portata.

Glass rappresenta dunque tutte queste contraddizioni del regista, che sull’onda del successo della sua rinascita dopo vari blockbuster falliti, prende in mano una macrotrama che concettualmente gli era chiara, ma che frettolosamente o ingenuamente ha trasposto. 
Ovviamente con una grande perizia tecnica, ma con una mancanza di veduta nella sua esecuzione che, tra venature blockbusteriane action tipicamente da cinecomic commerciale e poetica d’autore, ha generato una trama confusa e inutilmente cervellotica. 
Non una degna conclusione per la trilogia informale di Shyamalan, ma che ugualmente ho accettato per la sua concezione teorica che gli è dietro che ha comunque regalato due perle del cinema contemporaneo.

Voto 7

La favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

immagine della recensione su la favorita

Dopo il totalitarismo psicologico di Dogtooth, la distopia romantica di The Lobster e la tragedia greca del Sacrificio del cervo sacroYorgos Lanthimos ritorna con un biopic storico volto a raccontare la malleabile verticalità del potere all’interno della corte della regina Anna Stuart. Con la sua tipica crudele ironia immersa come sempre nella sua estetica asettica e geometrica tipica del cinema di Stanley Kubrick.

Il regista greco decide infatti di cimentarsi in una pellicola storica non sceneggiata da lui per potersi concentrare unicamente sulla regia, anche se a conti fatti è proprio quest’ultima ad influenzare sia l’estetica che la poetica della Favorita.

La trama ruota attorno alle tre protagoniste femminili che danno il titolo al lungometraggio, dove la prima e unica vera favorita ovvero la regina Anna Stuart, ormai sempre più malata e disinteressata del suo Regno, si diverte come una bambina viziata e capricciosa a farsi lusingare dalla due scaltre favorite e contendenti del potere regale nella corte, ossia Sarah Churchill e Abigail Hill.

La prima è la chiara espressione della razionalità e dell’hard power, col titolo di duchessa di Marlborough in quanto maritata con il generale dell’esercito John Churchill. Scaltra, schietta, tenace, stratega, dura e saggia sia nella gestione del Regno sia nei confronti della Regina Anna in quanto sua amica di lunga data e fidata consigliera in tutti i campi sia di politica interna sia di politica internazionale. 
Lo spazio di manovra enorme che le è stato concesso grazie alla sua carica di Keeper of the Privy Purse affidatole dalla pigra e disinteressata Regina, le permette di controllare il governo del Parlamento sostenendo il partito dei Whig, quest’ultimo di orientamento liberale e favorevole al continuo della guerra di successione spagnola proponendo addirittura un aumento delle tasse per supportare le campagne militari contro l’esercito nemico in modo da sconfiggerlo definitivamente fino alla resa incondizionata.
La politica agguerrita e violenta dei Whig è controllata ovviamente da Sarah Churchill che mira ad ottenere sempre un più ampio potere e influenza all’interno della Corte, oltre che ad aumentare il prestigio di suo marito impegnato a condurre le battaglie vittoriose sui vari fronti della guerra.
La natura pragmatica e castigata della nobildonna le conferisce dunque un carattere forte ed autorevole nelle sfere più alte del potere, guadagnandosi così il rispetto e l’amicizia intima del governo in carica dei whig e l’antipatia dei suoi oppositori politici, i Tory.
Sarah, sostituendosi di fatto al potere esecutivo della Regina, manipola e orienta le decisioni di quest’ultima in favore dei suoi personali interessi, cercando di non superare il limite del potere regale che di fatto le concede il lusso di comportarsi anche in modo irrispettoso ai voleri della sovrana su temi delicati quali la politica interna ed estera.
La personalità ferrea e assertiva della duchessa di Marlborough vince quindi sulla fragile ed ingenua personalità di Anna Stuart, dove quest’ultima nonostante sia la reale detentrice del potere, cede e delega volentieri i suoi doveri noiosi da sovrana alla sua più competente e fidata amica, in cambio di agiatezza, comfort, piaceri e vizi non solo dati dalla servitù, ma anche dalle prestazioni sessuali che le offre la sua migliore amica.

La seconda è la chiara espressione del desiderio e del soft power, nobildonna caduta in disgrazia per le speculazioni del padre e cugina di Sarah Churchill.
Abigail Masham dato il suo passato nobiliare burrascoso che l’ha messa sul ciglio della strada e quindi a stretto contatto con la plebaglia, ha sviluppato un carattere totalmente differente da sua cugina, molto più passionale, innocente, ingenuo, premuroso e servile nei confronti del prossimo. 
Il suo ingresso nella Corte e sotto il tutoraggio di Sarah che le concede il titolo di Lady of the Bedchamber, ovvero sua cameriera personale, comincia a far emergere il suo lato più egoistico, viscido, carnale e fintamente altruistico per conquistarsi ogni singolo vuoto di potere lasciato da sua cugina per poter ritornare la nobildonna di un tempo, scalando così i gradini del potere utilizzando i più scaltri e rozzi metodi per lusingare e conquistare la fiducia della Regina.
L’assenza frequente di Sarah Churchill alle richieste capricciose e viziate di Anna, viene colmata infatti dalla giocosa e calorosa presenza di Abigail, che sfruttando i suoi lati più passionali e amichevoli, guadagna gradualmente il tanto agognato potere nobiliare che le era stato sottratto ingiustamente dal padre.
L’agenda politica della giovane sguattera ora diventata Lady of the Bedchamber, è ovviamente antitetica a quella di sua cugina, infatti la sua filosofia individualista e frivola prevede soltanto di accrescere e consolidare il suo status personale alleandosi con il miglior offerente, che in questo caso viene rappresentato dal leader dei Tory, Robert Harley.
La strategia asimmetrica di Abigail Hill ha dunque lo scopo di fare da spia per conto dell’oppositore politico di Sarah per fargli perseguire i suoi interessi politici mentre quest’ultimo gli offre un rampollo invaghito di lei come sposo, in modo che lei possa finalmente sposarsi per ottenere un titolo nobiliare in grado di competere contro quello di sua cugina.
La menzogna, la finta ingenuità e la denudazione dei suoi sentimenti sono le armi infime e beffarde che Abigail utilizza per raggiungere le chiavi del potere, ma che soltanto grazie alla sua sensualità riesce definitivamente a soggiogare la frivola personalità della Regina, che appagata e colpita dall’impulsività della giovane ragazza, decide di concedersi a lei per desiderare la più semplice e rapida soluzione ai suoi problemi: l’accondiscendenza dei sudditi al suo potere assolutistico e capriccioso.

Le vicende e gli scontri per il potere che si susseguono all’interno della Corte sono semplicemente affascinanti e magnetici grazie all’enorme suggestione che Yorgos Lanthimos costruisce e fortifica con la sua magistrale messa in scena, che attraverso l’uso di grandangoli e alternate scelte fotografiche, dipinge perfettamente un’affresco di un’epoca vista nei suoi più intimi spazi e nei suoi bizzarri usi e costumi, evidenziando in particolare coloro che facevano parte delle più alte gerarchie nell’Inghilterra del XVIII secolo.

Il regista greco si concentra infatti ad illustrare le curiose vicende che caratterizzavano la Corte della debole e malata Regina Anna Stuart, focalizzandosi sul rapporto delle tre donne in un mondo patriarcale caratterizzato da intrighi politici e gerarchie invalicabili.
Il trio femminile davanti a questo mondo maschilista ed aristocratico, soprattutto nelle due favorite che si contendono il potere e il cuore della Regina, si dimostrano estremamente caparbie e capaci di manipolare la mascolinità e il testosterone degli uomini a proprio favore.
E non solo riescono a realizzare i propri interessi sfruttando il bipartitismo parlamentare tra whig e tory e l’orgoglio maschile che si ferma unicamente a battaglie ideologiche sia politiche che amorose, ma riescono sapientemente a sfruttare la loro sensualità per sedurre il potere stesso, dove quest’ultimo nasce proprio nella focosità della sua affermazione e manifestazione.
La ricerca dell’assolutismo e della prevaricazione è dunque insita in tutti noi esseri umani, e l’acceso duello sia fisico che psicologico tra Abigail e Sarah porterà soltanto alla loro stessa distruzione. 
Razionalità e desiderio si scontrano perciò in un complesso e pericoloso valzer per la contesa del potere che passa inevitabilmente nella gestione della delicata dicotomia tra hard power e soft power, incarnati dalle due favorite che eccedendo in entrambi gli aspetti dell’amministrazione di uno Stato, si ritrovano irrimediabilmente punite dallo stesso aristocratico, capriccioso e viziato potere regale che le aveva legittimate.

Il finale certifica non solo la riaffermazione dell’autorità di Anna Stuart sulle donne che l’hanno manipolata e tradita, ma segna anche una profonda ferita emotiva carica di disagio e di rimorsi della Regina, che conscia di avere perso la sincera Sarah Churchill e tenuto la superficiale Abigail Hill, decide di punire quest’ultima obbligandola a massaggiarle una gamba appoggiandosi sopra la sua testa e stringendole forte i capelli, come se fosse una qualsiasi serva all’interno della corte.
L’allusione che Yorgos Lanthimos utilizza nel finale per rappresentare il tragico epilogo di Anna Stuart, è una semplice scena in dissolvenza sui numerosi conigli della sovrana che rappresentano tutti i suoi figli persi a causa della sua dolorosa malattia, che infatti segnerà la fine della sua dinastia e dello stesso potere regale.
Difatti, nonostante la sceneggiatura si focalizzasse molto sul trittico femminile, il film non è esente da una lettura storica e politica dell’Inghilterra preindustriale, infatti è interessante come l’insistente bipartitismo parlamentare e la velata borghesia rampante insita nelle due favorite, non sia nient’altro che l’inizio di una lenta ascesa che porterà la classe borghese a prevalere su quella aristocratica, marginalizzando sempre di più i poteri e il ruolo del sovrano ad un mero simbolismo dell’imperialismo britannico, accentrando di fatto la tripartizione dei poteri nelle mani del Parlamento di Westminster, in quanto un’istituzione collegiale e competente in grado di guidare con maggiore responsabilità il destino del proprio paese rispetto ad un egocentrico ed incapace sovrano assolutista.

Concludendo, La Favorita di Yorgos Lanthimos dimostra come il genere storico possa offrire molte letture sia antropologiche che politiche anche sulla nostra contemporaneità, soprattutto quando un regista riesce sapientemente ad inserire chiavi di lettura audaci attraverso una messa in scena superba senza seguire il classico didascalismo monotono e spesso errato della narrazione degli eventi storici presi in considerazione.
Il regista greco non ha quindi paura di infondere i suoi classici stilemi in un’opera pensata per concorrere a premiazioni mainstream, dove il suo dark humor e la sua estetica asettica e geometrica spesso glaciale, ma anche calorosa nei momenti di svolta all’interno della drammaturgia del lungometraggio, rendono questa pellicola cinematografica unica nel suo genere in quanto pregna di una forte identità autoriale capace di reinventarsi attraverso la forza del genere.

Il paragone sempre più palese ormai alla filmografia di Stanley Kubrick non è un caso, infatti Orizzonti di Gloria e Il Dottor Stranamore sono un chiaro esempio di pellicole storiche uniche nel loro genere in quanto versatili ed originali nella loro narrazione e potenza estetica grazie alla loro forte impronta autoriale. 

La Favorita non è da meno, persino uno come me, da sempre scettico sui classici polpettoni storici, si è dovuto ricredere.

Voto 8.5

Il primo Re (2019) di Matteo Rovere

immagine della recensione su il primo re

Quando ritorna Matteo Rovere con un film in Sala, ritorna inevitabilmente il Grande Cinema Italiano

Dopo aver partecipato a quella parvenza di rinascita del Cinema Nostrano nel 2016 con Veloce come il vento, ecco che 3 anni dopo, grazie anche anche ai finanziamenti del Belgio e di Rai Cinema, con soli 8 milioni di budget ci porta uno dei migliori film italiani degli ultimi 30 anni.

Il primo Re si presenta dunque come una reinterpretazione del Mito di Romolo e Remo che narra le gesta dei due noti fratelli nella fondazione dell’Eterna Urbe ovvero Roma, la più grande civiltà della Storia. L’approccio però antropologico, semiotico, linguistico, esoterico, spirituale, storico, politico, sociologico e culturale di Mattero Rovere dona inevitabilmente un tocco autoriale alla pellicola, che si distingue per forma e sostanza da tutte le produzioni milionarie hollywoodiane storiche, che risultano eccessivamente pompose e inutilmente barocche.

Il regista infatti, crea il Mito nella Storia e la Storia nel Mito, rendendo realistico il racconto del noto fratricidio che unito al minimalismo delle ambientazioni e intrecciato all’introspezione psicologica del popolo proto-romano, genera un’opera immensa che trascende il genere storico e che ne riscrive l’Epica.
Un altro valore aggiunto all’interno della pellicola è senza dubbio l’utilizzo del proto-latino come lingua predefinita all’interno del film, che dona un ulteriore realismo alle vicende narrate, rendendo i dialoghi storicamente attendibili e carichi di un’emotività unica nel descrivere il carattere dei vari proto-romani e dei popoli latini presenti nell’odierno Lazio centrale.
La ricostruzione storica ed ancestrale di questa primitiva, boscosa e paludosa Latium vetus del 753 a.C. è anch’essa notevole nonostante il budget ristretto, e rappresenta chiaramente la superiorità di Alba Longa nei confronti degli altri popoli latini e sabini, che sono arginati dal Tevere e braccati dalla natura ostile del territorio laziale.

L’incipit del film infatti, nasce proprio da questa grande esondazione del Tevere, che distruggendo i pascoli di Romolo e Remo, battezza formalmente le due leggende, che si ritroveranno insieme ad altri prigionieri al cospetto di questa tirannica natura esogena della regione, che li porterà inevitabilmente alla creazione di Roma.
La trama opta perciò per una narrazione realistica ma allo stesso tempo allegorica del Mito, che vede i prigionieri ribellarsi all’autorità di Alba Longa, intraprendendo un percorso indipendente all’ordine precostituito, accompagnati però da una sacerdotessa fatta prigioniera durante la loro fuga, che rappresenterà il simbolo e lo spirito di questo nuovo popolo che nascerà proprio dalle sue sventure.
Il triangolo esoterico che si instaurerà tra RomoloRemo e Satnei (la sacerdotessa prigioniera), sarà il cardine degli equilibri che si muoveranno all’intero del branco dei proto-romani, che tra scontri, superstizioni e legami di sangue, definiranno per sempre il destino di questo nuovo popolo pronto a sbocciare nella sua leggenda e cruda realtà.

Il film nella sua complessa ricostruzione storica e realistica degli eventi, riesce anche perfettamente a rappresentare la dicotomia tra i due fratelli dove vediamo da una parte Remo, forte, determinato e protettivo nei confronti del fratello che diventerà sempre più laico, distruttivo, individualista ed avido di potere nello sfidare la profezia della predestinazione sulla fondazione dell’Eterna Città, mentre dall’altra parte invece Romolo si mostra più compassionevole, religioso, collettivista e metodico nell’impostare la genesi del nuovo impero preannunciato dall’aruspicina della sacerdotessa Satnei.
Lo scontro ideologico, politico e religioso che nasce tra i due fratelli si scontra tragicamente con l’amore che entrambi provano nell’onorare le ultime parole della loro amata madre, ma un destino divino e super partes ha già scelto per loro una strada univocamente volta al fratricidio e alla creazione della più grande e avanzata Civiltà che la Storia abbia mai conosciuto.

La pellicola riesce magistralmente a dipingere questa tragica drammaturgia che affonda le sue radici nell’Epica più gloriosa ovvero quella Classica, che nasce nel momento in cui il tanto acclamato duello si conclude.
L’Età Classica perciò, è preceduta da un periodo arcaico che anticipa la leggenda e ne precostituisce le fondamenta, e la pellicola in questo passaggio focale riesce egregiamente a rappresentare codesta transizione.

Il “Mito Storico” che si instaura nel film infatti, non è costellato unicamente dal trittico composto dai due fratelli e da Satnei, ma anche dalle numerose persone che contribuiscono alla creazione della Leggenda che diventerà poi Roma. Reietti, prigionieri, schiavi, barbari e popolazioni indigene laziali si uniscono alla travagliata odissea boschiva e paludosa che intraprendono Romolo e Remo, che vedono inizialmente il secondo prevalere sul primo per astuzia, determinazione e forza bruta, ma successivamente riconosceranno nel primo la vera leadership, che per antonomasia non corrisponde all’esercizio autoritario del potere, ma dall’autorevolezza con cui dona importanza al fuoco sacro e dunque al rispetto del volere degli dei, ottenendo così di fatto legittimità e potere sul popolo appena conquistato.
L’analisi antropologica di questa pellicola risulta sopraffine nel trattare la natura dell’uomo e della sua infatuazione per il potere e per il divino, che per assurdità di noi uomini contemporeanei, vede prevalere la religiosità e la divinizzazione di Romolo in contrapposizione al raziocinio e pragmatismo di Remo.

Il primo Re riesce dunque magistralmente a reinterpretare il nostro tanto amato Mito Romano con una visione estremamente profonda nell’analisi delle fonti dei nostri antenati (con tanto di citazioni), rendendo il Mito quasi attendibile storicamente grazie al realismo con cui Rovere ricostruisce la società arcaica pre-romana.
Lingua, costumi, combattimenti, abitazioni, gesti, religioni e consuetudini, sono perfettamente fedeli alla loro controparte storica, che grazie ad un velato misticismo e simbologie recondite, rende il Mito credibile e l’Epica riscritta in una chiave di lettura più introspettiva e allegorica.

Se proprio dobbiamo trovare un difetto a quest’opera magistrale, forse lo si può trovare nell’uso eccessivo dei rallenty nei combattimenti, che risultano comunque ben coreografati e ben diretti.

In conclusione, Matteo Rovere firma il suo ennesimo filmone in un mare di superficialità e inettitudine quale è il Cinema Italiano, che se si impegnasse maggiormente, potrebbe realmente regalare perle come questo maestoso lungometraggio che distrugge tranquillamente filmacci hollywoodiani storici falsamente epici come 300Troy e Il Gladiatore, diffamando l’Epica Classica per sacrificarla al becero machismo americano.
Matteo Rovere invece, orgogliosamente romano ed italiano, centra perfettamente le dinamiche del nostro passato, affondando nelle radici del Mito Romano e sviscerandone la sua Epica, interpretandola con una visione autoriale in grado di darle il perfetto spessore per una trasposizione meritevole per la Settima Arte.

E il risultato è semplicemente sublime.

Voto 9

The Mule (2019) di Clint Eastwood

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The Mule rappresenta la penultima fatica dell’ormai ultraottantenne regista-attore Clint Eastwood, che ritorna in forma smagliante a recitare e dirigere il suo quarantesimo film, dimostrando di avere ancora una grande forza e vitalità fuori dal comune.

Famoso per essere diventato un’icona del Cinema grazie ai suoi numerosi ruoli da antieroe sin dagli anni ’50 e per essere successivamente diventato un grande cineasta a partire dagli anni ’70, Clint Eastwood si distingue dagli altri registi per aver interpretato numerosi ruoli da protagonista nei suoi stessi film fino ad età avanzata, trattando tematiche politiche e sociali sull’America con una visione tipicamente politicamente scorretta e votata al suo pensiero repubblicano libertario.
Se in molti dei suoi film interpretava ruoli da duro o da tipico vecchietto veterano di guerra fedele alla propria nazione, in The Mule decide di addolcire il suo personaggio e la sua storia per una narrazione più intima e sentimentale, se non addirittura autobiografica.

La trama si basa infatti sulla biografia di Leo Sharp, un veterano della seconda guerra mondiale che assiste alla chiusura della sua piccola impresa di orticoltura per mancanza di fondi.
Costretto a trovare un altro lavoro, si trova a sua insaputa ad accettare un incarico come corriere della droga per il cartello messicano di Sinaloa, che grazie alla sua natura ingenua da insospettabile vecchietto e alla sua abilità nella guida, diventa il miglior corriere della droga degli Stati Uniti meridionali.
Naturalmente i problemi sorgono nel momento in cui la DEA comincia ad indagare sul suo nome in codice “Tata” soprannominato dai suoi colleghi messicani e dai problemi familiari che nel corso degli anni trascurava per dedicarsi alla sua carriera da orticoltore e da uomo di mondo.
Il film ruota quindi sulla doppia vita dell’anziano narcotrafficante, che tra viaggi in macchina e riciclaggio del denaro guadagnato, cerca nella sua nuova avventura col cartello di redimere se stesso, cercando di ripagare tutti gli errori che ha commesso in passato nei confronti della sua famiglia.

Il tempo e la vecchiaia sono dunque il tema centrale del film e Clint Eastwood avendo a cuore questi due grandi macrotemi, li accosta metaforicamente ai fiori coltivati dal nostro protagonista. 
Quest’ultimi non solo rappresentano il breve ciclo della nostra esistenza, ma anche la genuinità, la spontaneità e la libertà dell’essere umano e dunque anche del nostro simpatico protagonista, che viene brutalmente mutilato dalla ferocia dei narcotrafficanti e dalla natura ostile e selvaggia dell’America di frontiera.

Lo scontro secolare tra DEA e Cartello di Sinaloa, non impedisce però a Leo Sharp di vivere la sua vita travagliata, che nel momento dell’imminente morte di sua moglie, decide di ricucire i legami perduti con la sua famiglia ed ottenere finalmente la redenzione, tralasciando per la prima volta il suo egoismo e il suo lavoro.

La presa di posizione del finale segna definitivamente la poetica di Clint Eastwood, che giunto ormai al capolinea della sua immensa carriera, ci insegna come nella vita bisogna valorizzare chi ci vuole bene e di non sprecarla in egoismi fini a sé stessi, vivendola al massimo delle nostre capacità senza intaccare la nostra dignità.

L’America non è un paese per vecchi e la scena finale è emblematica nel rappresentare questa triste realtà, che grazie ad una inaspettata sensibilità e dolcezza, Clint Eastwood decide di raccontare in questo fresco ed emozionante biopic d’autore.

Voto 7+

Alita – Angelo della battaglia (2019) di Robert Rodriguez

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I do not stand by in the presence of evil!

Alita, anno 2563.

20 anni sono passati prima che il sogno di James Cameron si realizzasse nel trasporre il famoso manga Alita l’angelo della battaglia di Yukito Kishiro. Occupato con la produzione dei suoi numerosi progetti tra cui i famosi sequel di Avatar (2,3,4,5), trova in Robert Rodriguez il regista perfetto nel trasporre al Cinema le avventure della famosa guerriera nipponica.
Inizia così la collaborazione tra il regista canadese e messicano, il primo come sceneggiatore e il secondo come regista, che uniti da una forte passione creativa e sensibilità artistica verso il genere sci-fi, creano un’opera visivamente straordinaria di puro intrattenimento che onora la sua controparte cartacea adattandola ai canoni moderni.

Il film stroncato dalla critica e snobbato in parte dal pubblico, ha subito il naturale processo di una prima interpretazione superficiale della pellicola, che non punta a condensare mille eventi di una macrotrama in sole due ore, ma bensì a costruire un’ottima storia di origini che punta principalmente sulla caratterizzazione della protagonista, che grazie al suo carisma influenza ambiente, eventi e personaggi all’interno del film.

La pellicola infatti, presenta il suo mondo post-apocalittico attraverso gli occhi della protagonista, che cade dal cielo come un angelo cade dal paradiso, ma invece di finire tra le grazie di mille seguaci pronti a venerarla come una dea, si ritrova con la sua sola testa cyborg in un’immensa discarica di rifiuti. Qua trova l’attenzione di un medico di bionica Ido Dyson, che decide di portarla a casa per donarle un corpo e una nuova identità: Alita.
Lo spettatore catapultato come la nostra eroina nel nuovo mondo che la circonda, viene guidato dal film attraverso i primi passi di Alita che come una bambina innocente comincia ad esplorare la Città di Ferro, metropoli terrestre costruita sotto gli scarichi dei rifiuti di Zalem, l’ultima città sospesa dopo 300 anni dalla “Caduta” ovvero la guerra interplanetaria tra Terra e Marte che si concluse con la quasi totale distruzione del nostro pianeta.
Il mito e il mistero della dorata ed imponente Zalem echeggia nella popolazione terrestre che vi vive al di sotto, soprattutto in Alita e Hugo (ragazzo conosciuto in città e amico di Ido Dyson) che fantasticano come due ragazzini di arrivare un giorno nella città sospesa tra le nuvole.
Da semplice ragazzina col tempo Alita diventa una giovane adolescente sotto la guida dell’ormai figura paterna di Ido Dyson e dalle peripezie con Hugo e i suoi amici che praticano il Motorball, sport estremo adorato dalla popolazione della Città di Ferro.
La crescita ormonale viene accompagnata da una crescita interiore della protagonista, che attraverso i vari scontri fisici con i vari cyborg criminali, risvegliano in lei uno spirito guerriero che si manifesta automaticamente dopo vari flashback della sua vita passata. Conscia di non essere un semplice cyborg, ma di essere un’arma letale impiegata ai tempi della “Caduta”, insieme ai suoi amici terrestri deciderà di ricostruire il suo passato da guerriera, scontrandosi con la peggio feccia della città, che va dai cacciatori di taglie ai criminali di strada fino ad arrivare a Vector, boss criminale che mira a schiavizzare i cyborg seminando terrore ed esercitando così controllo sui cittadini della Città di Ferro.

La trama del film ruota quindi sul complesso percorso di crescita di Alita, che divisa tra un passato da guerriera e un presente da giovane adolescente, dovrà scegliere quale identità assumere nell’esotica ed ostile Città di Ferro.
I rapporti interpersonali con i vari personaggi del film sono perfettamente bilanciati dalla sua personalità combattiva, tenace, allegra, amorevole e gentile, dimostrando di avere un grande cuore proprio come gli essere umani.
Il melting pot che si origina nella città però, vede prevalere la presenza di elementi meccanici-bionici anche negli stessi abitanti umani, che si confondono con i cyborg che ormai prevalgono di numero sui primi. La tecnologia futuristica diventa dunque un tassello fondamentale per l’ecosistema della stessa città se non anche della stessa Zalem, che sfrutta le risorse della Città di Ferro per arricchirsi e autosostenersi.
La popolazione è perciò ormai ridotta alla povertà dalle scorribande criminali e dalle politiche di Zalem, e si vede dunque costretta ad adottare una stile di vita predatorio e di prevaricazione sul prossimo, trovando il capro espiatorio nei cyborg.
Ed è dunque da questa triste realtà che il personaggio di Alita infonde positività, speranza e umanità per tutto il corso della pellicola in quanto il disequilibrio della città rappresenta anche il suo stesso disequilibrio interiore, che vuole riequilibrare cambiando il mondo che la circonda. La forza di volontà della protagonista rappresenta la più pura essenza dell’essere umano ovvero l’ideale, che si scontra con coloro che lo vogliono reprimere tra cui Vector, ma anche lo stesso Ido Dyson che temendo per un’escalation di violenza di Alita, rifiuta di donarle un nuovo corpo ultratecnologico militare visto che quest’ultimo potrebbe prevalere sulla sua tanto genuina e conquistata umanità.

Difatti, desiderio e libertà diventano il vero motore della sua brutale tecnica futuristica di arti marziali chiamata “Panzer Kunst”, che rende la snella ma potente eroina incredibilmente micidiale e imbattibile anche per i migliori cyborg avanzati. Insieme alla sua evoluzione psicologica, abbiamo dunque anche quella fisica che seppur molto sofisticata, incontra non poche difficoltà, tant’è che nel momento in cui perde metà del suo corpo, continua a combattere fino alla fine delle sue forze grazie ai suoi ideali che la contraddistinguono, rendendola un vero e proprio angelo della battaglia.

La pellicola non si riduce però alla rappresentazione di un girl power fine a sé stesso o di una Mary Sue, ma giustifica ed esplica sapientemente l’origine e il valore della forza della nostra protagonista, senza stereotipi e falsi moralismi, anzi, mostra chiaramente come il dolore e i limiti di una ragazza possano cambiarla drasticamente senza però farle perdere la fede e l’ardore verso l’amore, la liberà, la giustizia ma soprattutto verso l’umanità.

Robert Rodriguez e James Cameron da sempre hanno creato archetipi di figure femminili forti ma estremamente sensibili, tant’è che questo fattore comune li ha uniti a produrre questo grandissimo blockbuster, che è un atto di amore sia nei confronti del genere scifi e dal manga da cui hanno attinto la storia, sia per la figura della donna che assume spesso ruoli di rilievo nelle loro filmografie.

Oltre all’anima e al messaggio sociale che i due colleghi registi hanno trasmesso nella realizzazione di questa pellicola, il comparto tecnico del film è semplicemente sublime, tant’è che durante la visione non si ha più la cognizione di cosa sia finto e di cosa sia vero.
La computer grafica infatti, è dosata perfettamente all’interno del lungometraggio che unita all’analogico rende l’ambiente percepibile come vivo e tangibile.
La creatività nel design dei cyborg e nella rappresentazione digitale dell’ambientazione futuristica del film è incredibilmente realistica, soprattutto per l’uso del motion capture su Alita che rende il suo volto talmente espressivo che sembra realmente umano, merito anche per la grandiosa interpretazione dell’attrice Rosa Salazar.
La creatività di James Cameron sull’uso delle nuove tecnologie per gli effetti speciali non deve però sfigurare il talento registico di Rober Rodriguez, che rende chiare, emozionanti e adrenaliniche le scene d’azione come i combattimenti di arti marziali tra cyborg e le gare di Motorball.

In sostanza, ci troviamo di fronte ad un blockbuster visivamente spettacolare di puro intrattenimento con una delle migliori storie di origini per un personaggio femminile che, nell’era delle Social Justice Warrior e delle nazifemministe, è sempre più difficile trasporre, e che sia in grado di mostrare un girl power senza che questo venga criticato, manipolato, mal interpretato o addirittura ripudiato dalle correnti più misogine e maschiliste del pubblico contemporaneo (vedesi l’astio per la nuova trilogia di Star Wars).

Alita – Angelo dalla battaglia è un film che verte quasi tutto il suo focus verso la peculiarità della protagonista che non sacrifica la trama, anzi, la plasma a sua immagine proprio perchè quest’ultima incarnerà la fiaccola della rivoluzione che cambierà il destino della Città di Ferro salendo a Zalem e sfidando il suo main villain, Nova, burattinaio di Vector.
La scena finale che segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta di Alita e dall’essere prima una ragazza ed ora una donna, rappresenta oltre che all’ultimazione definitiva della sua emancipazione femminile e il rifiuto di un paradiso (Zalem) che ha ripudiato il suo stesso angelo, anche l’avvio di un possibile franchise e dunque la realizzazione di un sequel.

Adorando il personaggio, la sua storia e il suo mondo, non vedo l’ora che il progetto cinematografico continui e che sviluppi tutte le sue potenzialità, ancora non del tutto espresse in questo potenziale primo capitolo di una futura saga. 

Voto 8.5

Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

immagine della recensione su alita angelo della battaglia

Per la prima volta il MCU decide di introdurre una protagonista femminile dedicandole un film solista, cavalcando l’onda del girl power e inserendola furbamente come tassello fondamentale all’interno della sua macrotrama. Un’operazione di tutto rispetto, vista l’ormai sofisticata abilità dei Marvel Studios nell’attirare il pubblico generalista ad ammirare il nuovo supereroe appena introdotto.

Nonostante le variabili siano a favore della major e gli incassi esorbitanti, si è creato un circolo mediatico attorno al film che forse risulta più interessante e memorabile della pellicola stessa.

La rivolta del web e la polemica dei media sta proprio nelle dichiarazioni controverse dell’attrice protagonista Brie Larson, che afferma in una conferenza di non accettare il fatto che la critica sia composta per la maggior parte da maschi bianchi e non dalle varie minoranze che compongono l’America; di conseguenza secondo l’attrice, i film non vengono recepiti come dovrebbero non avendo una critica eterogenea che li possa criticare seriamente.

La mal interpretazione del suo discorso e la contraddizione della stessa Brie Larson, hanno generato così l’ennesimo scontro tra pubblico e Disney con relativi boicottamenti e video diffamanti.
È interessante come ormai lo scontro tra l’Hollywood liberale e il pubblico generalista sia sempre più acceso quando si tratta di rappresentare figure femminili forti nel Cinema contemporaneo, che si ripecuote indubbiamente sulla qualità e sulla percezione delle produzioni cinematografiche.

Inevitabilmente il paragone con Alita – Angelo della battaglia è doveroso in quanto tratta anch’esso l’emancipazione femminile, e quest’ultimo lo tratta con più profondità e sensibilità rispetto al film Marvel.
Tuttavia Captain Marvel non rappresenta per niente una propaganda SJW e un girl power fine a sé stesso da come molti è stato definito, anzi, tratta diversamente la classica genesi del supereroe.

Il film infatti, narra le vicende di Carol Danvers, una guerriera Kree impegnata nella millenaria guerra contro gli Skrull, una razza aliena mutaforma che invade i pianeti emulando le loro popolazioni.
La nostra protagonista convinta nella sua crociata dal suo maestro Yon-Rogg, inizia a dubitare della sua stessa identità e dei suoi insegnamenti, in quanto vittima di allucinazioni di frammenti della sua memoria che la riconducono nel suo passato sulla Terra. Dopo una fallita incursione su un avamposto Skrull ed essere fuggita da una loro prigione, la nostra eroina finisce sulla Terra dove riscopre sé stessa grazie anche all’aiuto di un giovane Nick Fury.

La trama del film si colloca infatti negli anni ’90 ed è dunque un prequel degli eventi che seguiranno nel MCU con il primo Iron Man del 2008. L’utilizzo di una linea temporale ambientata nel passato come giustificazione del Deux ex Machina di Captain Marvel nella scena post credit di Infinity War, risulta giustificabile e poco forzato ai fini della macrotrama, che permette anche ampio spazio nel descrivere il background di Carol Danvers attraverso il montaggio alternato dei suoi flashback. 
La narrazione delle sue origini risulta dunque ambigua e poco nota allo spettatore che potrebbe non empatizzare con il personaggio, ma il tutto è funzionale al gioco di maschere e intrighi che permea per tutto il lungometraggio.
La narrazione infatti adotta uno stile alla spy story, dove nessun personaggio è come appare. I falsi insegnamenti, le bugie della retorica, i benefattori che diventano malfattori e il coraggio di affrontare le proprie incertezze, sono i temi principali che caratterizzano la pellicola, che ribalta le aspettative dello spettatore regalando ottimi colpi di scena. La natura mutaforma degli Skrull non fa che avvalorare questi temi e rende il lungometraggio ancora più intrigante e imprevedibile.

l film non ha dunque problemi di ritmo negli eventi rappresentati e nel suo inserimento nella macrotrama del MCU, ma ha il gravoso difetto nell’incapacità di donare una buona caratterizzazione a Captain Marvel, che non ha elementi unici che la contraddistinguono dagli altri Avengers. 
L’interpretazione granitica e monofacciale di Brie Larson non aiuta di certo a infondere ulteriore carisma alla piattezza del personaggio, che viene salvato unicamente dai personaggi secondari che lo accompagnano nel suo lungo viaggio interiore per raggiungere la piena consapevolezza del suo potenziale. L’eccesivo overpower di Captain Marvel risulta comunque contestualizzato dall’origine dei suoi poteri, anche se questo porta nel corso della trama a non avvertire una reale preoccupazione per le sorti del personaggio nei momenti di massima difficoltà.

I registi Anna Boden e Ryan Fleck hanno comunque confezionato un prodotto modesto con alcuni spunti interessanti, ma che presenta una regia standard e spesso fallace nel rappresentare alcune scene d’azione che in mano ad un regista più capace avrebbe dato più risalto alla messa in scena di questa semi avventura spaziale.

Insomma, l’ennesimo cinecomic fast-food di transizione tra i i film corali del Marvel Cinematic Universe che soffre ormai di una continuity sempre più votata alla quantità che alla qualità, ma che indubbiamente ha rivoluzionato il cinema d’intrattenimento e il genere supereroistico, e che concluderà formalmente il suo primo ciclo vitale col capitolo finale Avengers Endgame.

Voto 7-

Border – Creature di confine (2018) di Ali Abbasi

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La peculiarità primitiva e mostruosa dei due protagonisti è ciò che mi ha spinto a vedere questa moderna favola scandinava, che si presenta come un normale urban fantasy fino a sfociare in un thriller da cardiopalma con delle tinte horror non indifferenti.

Il film di produzione svedese è stato presentato al festival di Cannes dove ha vinto un premio che gli ha permesso una più ampia distribuzione, che però in Italia purtroppo non ha avuto una grandissima diffusione, infatti sono dovuto andare in un cinemino sperduto d’essai per visionare quest’opera atipica e sconvolgente.

La trama ruota attorno alla vita di Tina, una donna dai tratti somatici simili a quelli di un uomo di neanderthal, che oltre a quest’aspetto mostruoso ritenuto un “difetto genetico” dalla società, ha un incredibile fiuto non solo per gli odori, ma anche per le emozioni delle persone. Questa sua straordinaria abilità le permette di lavorare alla dogana dove riesce a scovare criminali e materiale illecito con grande facilità, risultando un elemento fondamentale per la sicurezza della frontiera svedese.
La sua vita quotidiana però non è altrettanto gloriosa, infatti vive insieme ad un fannullone che la sfrutta per avere un tetto sopra la testa e qualche volta anche per avere rapporti sessuali occasionali.
La ripetitività e la monotonia della sua vita viene spezzata dall’arrivo alla frontiera svedese di un uomo simile a lei chiamato Vore, che è immune all’olfatto ipersensibile ed empatico di Tina.
Immediatamente la nostra protagonista si allerta e ferma l’uomo che non sembra spaventato dalla sua presenza, anzi, ne rimane quasi affascinato come se sapesse qualcosa su di lei e non volesse dirglielo con quella sua aria misteriosa e magnetica.
All’arrivo di Vore però si scopre anche un’indagine su un presunto traffico di video pedopornografici, che Tina scopre e ne viene coinvolta in prima persona grazie anche alle sue buone capacità olfattive.
Il mescolarsi dei vari eventi, sconvolgeranno la quotidianità di Tina che la porterà a riscoprire la sua identità e scoprire una verità sconcertante che la porrà sul filo del rasoio tra integrazione ed esclusione, tra bestialità e umanità, tra tolleranza ed oppressione.

L’elemento che più di tutti rende quest’opera svedese unica nel suo genere è proprio la sua profondità con cui tratta i temi della diversità, che affonda nel folklore scandinavo e nella mitologia norrena attraverso un urban fantasy che sfocia in un thriller dai connotati fiabeschi drammatici orrorifici, che rielabora il mito dei troll in una chiave di lettura più realistica e umana, raccontando una società distrutta ai limiti della crudeltà.

Il regista iraniano Ali Abbasi che vive da tempo nella regione scandinava, è dunque perfetto per raccontare questa storia di diversità, di integrazione e di esclusione, che sono tematiche tipiche di chi emigra da regioni lontane per poi arrivare e vivere nello Stato straniero in cui si viene accolti. 
Quella stessa sensazione di sicurezza ma allo stesso tempo di alienazione dell’immigrato, viene capovolta e reinterpretata intelligentemente per il personaggio di Tina, che sembra essere parte della società dell’uomo, quando in realtà si scopre essere un troll, una creatura mostruosa mitologica in via d’estinzione.

Il processo di accettazione della propria vera natura non viene paventato immediatamente allo spettatore, ma viene accompagnato nel corso della pellicola attraverso i dubbi di Tina, che è conscia di essere diversa dagli esseri umani, ma ne è allo stesso tempo spaventata per le conseguenze che potrebbe portarle a livello esistenziale. La nostra protagonista infatti, era sempre stata discriminata fin da piccola per i suoi difetti genetici dai suoi compagni di classe, e suo padre le aveva sempre raccontato di essere stata colpita da un fulmine da bambina.
Il cambiamento sia psicologico che fisico della nostra protagonista viene accompagnato dunque da Vore, che le racconta l’origine della loro specie e le insegna il modo di vivere dei troll. La nostra protagonista ritorna così come una bambina innocente ed un’adolescente ribelle a riscoprire sé stessa, il suo corpo, i suoi odori, la sua forza, il suo contatto con la natura, la sua dieta entomofaga, i suoi impulsi sessuali che culminano nell’atto passionale che consumano i nostri due troll in mezzo alla foresta.

La regia di Ali Abbasi riesce perfettamente ad inquadrare la scena pudica tra Tina e Vore che non è fine a sé stessa, anzi, la potenza espressiva e disturbante della scena è funzionale a rappresentare il culmine ormonale, passionale, sessuale e di crescita della nostra protagonista, che assiste finalmente al compimento della sua emancipazione trollesca, che unita alla natura intrinseca della foresta, ristabilisce finalmente la sua tanto attesa liberazione dalle costrizioni sociali artificiose della società dell’uomo.
Il regista riesce perfettamente anche ad inquadrare le bellezze della natura scandinava che accompagnano Tina e Vore quasi come se fossero Adamo ed Eva nel paradiso terrestre dell’Eden e alternare tale folklore norreno solare e rigoglioso, alle ambientazioni cupe cittadine che riportano i nostri personaggi nella realtà urbana ad affrontare i loro demoni interiori.

La dicotomia tra natura e uomo è sapientemente segnata dai due generi predominanti nel lungometraggio ovvero il fantasy e il thriller, che interrompono l’illusione fiabesca per focalizzarsi sul caso di pedopornografia, che se inizialmente sembrava di contorno, diventa sempre più interdipendente alla sfera personale di Tina fino a diventare emblematico per l’evoluzione definitiva del personaggio.
Il film giocando sul tema della diversità non nasconde affatto sotto la natura aulica del fantasy il marciume corrotto che permea nella società degli uomini, che essendo responsabili delle proprie disgrazie, producono involontariamente anche in coloro che rappresentano l’innocenza e la purezza, il loro lato più mostruoso e violento.

La componente thriller e drammatica fagocita infatti la componente fantastica per una narrazione più adulta, realistica e mistica, che porta lo spettatore a dubitare della vera natura dei personaggi che incontra durante il corso della pellicola, che potrebbero sembrare per come appaiono quando in realtà rappresentano tutt’altro. Il connubio dei generi rende il film ancora più ambiguo e imprevedibile, crudo e orrorifico nel trattare il parallelismo tra pedopornografia e la natura mostruosa dei troll, che per certi versi può ricordare Eraserhead di David Lynch.

Il rapporto tra Tina e Vore rimane in assoluto il cardine del film e la chiave di svolta della pellicola, che da un magnetismo reciproco passa ad un legame passionale fino a culminare in un dramma esistenziale. La costruzione effimera, ma profonda del loro rapporto si riflette indubbiamente sulla corruzione dell’uomo e dello scontro razziale con i troll, che porterà Tina a rivalutare i suoi legami familiari e bestiali fino a raggiungere un’autoconsapevolezza che forse le permetterà di vivere serenamente come un troll, ma con una bontà tipicamente umana.

La sorpresa nel finale indubbiamente è sinonimo di speranza per Tina, che per tutti i 3 atti del film si approccerà diversamente alla vista di un insetto, che simboleggia la crescita personale della nostra candida e innocente protagonista, che forse un giorno troverà finalmente pace nella sua tormentata esistenza.

Ali Abbasi si conferma alla sua opera seconda come un giovane regista capace di veicolare sapientemente un messaggio sociale nei riguardi dell’integrazione, dell’esclusione e delle diversità attraverso il folklore della mitologia scandinava, che racconta la natura dell’essere umano dinanzi alla crudeltà, alla realtà e alla verità delle difficoltà della vita, che possono trovare soltanto risoluzione di fronte alla bontà, alla gentilezza, all’altruismo, all’amore e alla tolleranza di noi esseri umani.

Insomma, una favola dark per niente retorica ma incredibilmente realista, che attraverso il genere riesce perfettamente a descrivere l’epopea e forse un possibile futuro più integrato e meno divisorio per l’egida del genere umano.

Un film assolutamente da rivedere, perchè forse ci troviamo di fronte ad una delle migliori pellicole di quest’anno.

Voto 9

Shazam! (2019) di David F. Sandberg

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Qui lo dico e qui lo nego. 

Il DC Extended Universe mi aveva preso fin dall’inizio con i suoi film dark intrisi da colonne sonore notevoli composte da Hans ZimmerTwenty One Pilots e altri artisti famosi, che con la loro pomposità e ritmica riuscivano perfettamente a costruire pathos ed epica nei momenti salienti dei film nonostante fossero sprecate dallo scarso valore contenutistico delle produzioni cinematografiche DCEU.
Ammetto che le prime pellicole mi piacquero un sacco come Man of SteelBatman v Superman e Suicide Squad, dove accecato dall’isteria nerd verso i cinecomics, non riuscivo a coglierne i loro evidenti difetti.
Dal 2017 però, acquisendo anche una certa cinefilia più critica nei riguardi del genere supereroistico, snobbai Wonder Woman soprattutto per il suo finale cringissimo che uccideva tutto il pathos precedentemente costruito all’interno della stessa pellicola.
La goccia che fece traboccare il vaso fu a novembre 2017 quando arrivai al Cinema a proiezione inoltrata di Justice League, dove per metà film, a causa del montaggio delirante e dalla sceneggiatura pessima, non riuscivo a cogliere il senso logico della trama che introduceva dei personaggi stile videogame all’interno di una storia confusa senza prima un minimo di costrutto psicologico e narrativo, lasciando il film in balia a botte e cazzotti senza un briciolo di pathos.

Ormai era chiaro che la Warner/DC non aveva idea di come continuare il suo universo supereroistico e che mirava esclusivamente al portafoglio degli spettatori, banalizzando l’interiorità dei suoi personaggi e sacrificando la trama per delle mere scene tamarre con effetti speciali scabrosi fini a loro stessi.
La mia profonda rivalutazione in negativo delle opere DCEU, si rifletteva anche con il confronto con altri cinecomics, soprattutto quelli del MCU, che seppur commerciali anch’essi, avevano comunque un disegno creativo che mirava a creare storie emozionanti ed originali per il suo pubblico di riferimento.

Le conseguenze di questo mio pensiero anti-DC, mi ha portato col tempo a preferire la Marvel e ad approfondire la sua lore sia nei film sia nei fumetti, e a saltare direttamente al Cinema il film tamarrissimo su Aquaman con Jason Momoa, attore cazzaro che odio, insieme a tutto il cast di Game of Thrones.

Alla vista del trailer di Shazam però, ho cominciato a ricredermi, perché finalmente la DC sembrava essere uscita dal suo schema dark inutilmente barocco e pretenzioso, per abbracciare una visione sui propri film più standalone e naturale con un’innata ironia e solarità che mai avevo visto prima d’ora. Convinto nell’originalità del soggetto e dall’interpretazione di Zachari Levi, ho deciso così di dare un’ultima possibilità alla DC, per vedere se seriamente il cambiamento fosse in atto o se si trattasse dell’ennesima commercialata ruffiana senza anima e senza cuore.

Devo ammettere che il risultato finale di Shazam è più che riuscito, infatti riesce a discostarsi notevolmente dal marciume che aveva intriso ultimamente i supereroi DC, reinterpretando il supereroismo in chiave più ironica e umoristica attraverso gli occhi di un ragazzino.

La trama infatti ruota attorno alla vita di Billy Batson, un giovane orfano che disperatamente cerca la sua madre naturale fuggendo costantemente dalle varie famiglie affidatarie, rendendolo freddo, insensibile ed infelice nei confronti della società. Tutto cambia quando viene affidato ad una famiglia composta unicamente da orfani, che cercherà in tutti modi di farlo sentire parte di un vero nucleo familiare.
Seppur cerchi di mantenere un rapporto freddo con tutti, soprattutto con il suo nuovo “fratello” di stanza Freddy, un giorno interviene contro dei bulli che cercano di pestare a sangue quest’ultimo, venendo a sua volta rincorso dai teppistelli fino alla metro.
Billy, una volta entrato al sicuro nella metropolitana, finisce inconsapevolmente nella Rocca dell’Eternità ovvero la magica dimora del mago Shazam, che gli conferisce i poteri dei 6 déi che compongono l’acronimo “SHAZAM“, trasformandolo da un ragazzo di 15 anni a un uomo di 30 anni supermuscoloso dentro un costume simile a quello di Superman.
Resosi conto della sua trasformazione e dei suoi eccezionali superpoteri, insieme all’aiuto di Freddy, cercherà di scoprire tutte le potenzialità della sua doppia identità, che sfrutterà come un ragazzino per compiere atti adulti ed eroici, burlandosi e mettendosi in mostra davanti alla popolazione di Filadelfia.
La musica cambia nel momento in cui il villain dottor Sivana arriva in città, che impossessatosi dell’Occhio dei peccati nella Rocca dell’Eternità, brama di rubare i poteri di Shazam per regnare sul mondo intero e liberare i sette peccati capitali.

Il fattore di maggiore interesse è senza dubbio la dualità attoriale di Zachari Levi e Asher Angel, dove il primo interpreta la parte adulta supereroistica mentre il secondo la parte dell’alter ego adolescenziale. La difficoltà dei due attori infatti, sta nel interpretare lo stesso personaggio con la stessa personalità, nonostante entrambi adottino due sfumature caratteriali leggermente diverse.
Zachari Levi ha di fatto l’interpretazione più complessa in quanto da adulto deve recitare come se fosse un ragazzino, optando per una caratterizzazione più comica ed infantile per Shazam, che gli riesce comunque facilmente avendo recitato spesso in commedie. Asher Angel invece, interpreta la parte di Billy Batson meno spensierata e più introversa, che è funzionale alla sua infelicità per una mancata figura materna che lo accompagnasse nella sua crescita.

Nonostante l’originalità del soggetto e la complessità recitativa da infondere coerentemente nello sviluppo del supereroe, la pellicola non brilla particolarmente per la sceneggiatura e la regia, che risultano basiche e abbastanza piatte nella gestione dei personaggi, soprattutto nel villain interpretato da Mark Strong, che seppur abbia una presenza scenica carismatica, pecca di una scrittura superficiale e di una rappresentazione stereotipata del male.

E’ chiaro fin da subito che la pellicola è orientata per un pubblico infantile data la portata fanciullesca e comica del personaggio, ma regala comunque delle scene horror inaspettate grazie alla regia di David F. Sandberg, che aveva diretto precedentemente il modesto Annabelle 2
L’evoluzione caratteriale più interessante resta comunque quella di Billy Batson, che seppur inizialmente risulta forzato e insensato l’abbandono della madre, con il concludersi della pellicola acquista un senso e costituisce un grande riscatto morale per il protagonista, che comprende finalmente il vero valore della famiglia e le responsabilità che la sua identità segreta supereroistica comporta.

Concludendo, la DC torna al Cinema con più dignità rispetto al suo tormentato passato “snyderiano”, che seppur decida di rappresentare un supereroe legato più ad un pubblico adolescenziale che adulto, trova comunque nell’eterogeneità dei generi cinematografici, la chiave per costruire pellicole standalone miranti più ad una qualità cinematografica che fumettofila, così da porsi in perfetta antitesi al Marvel Cinematic Universe.

Il mio augurio più sincero per questo nuovo “World of DC”, è che proponga supereroi meno conosciuti e reinterpretazioni più autoriali sui singoli personaggi DC, che si prestano maggiormente a rivisitazioni più introspettive ed oscure rispetto ai loro concorrenti marvelliani. La diversificazione e l’autorialità, rappresentano l’obiettivo a cui arrivare per sopravvivere alla concorrenza spietata dei Marvel Studios, e se codesto obiettivo non venisse raggiunto, decreterebbe la pietra tombale definitiva all’universo DC al Cinema.

L’acquisizione della Fox Avengers Endgame segneranno una nuova svolta all’ormai super redditizio settore dei cinecomics, e se la DC non coglierà l’occasione della quiete Marvel post Avengers per imbastire una nuova immagine nell’industria cinematografica del cinefumetto, allora sarà troppo tardi per sperare in una reale competitività di prodotto e di concorrenza leale tra case di produzione.

Voto 7

PS: Divertente il cameo di John Glover che interpreta il padre del dottor Sivana. L’attore è celebre anche per aver intrepretato Lionel Luthor nella serie tv Smallville, che è appunto il padre avaro e senza scrupoli di Lex Luthor, la nemesi di Superman. Un rimando ad una serie televisiva DC che volenti o nolenti è diventata un cult per gli appassionati dei supereroi nei primi anni 2000. 

Curiosa anche la sua morte in un ufficio di un grattacielo per mano di un figlio vendicativo e assetato di potere, proprio come in Smallville. La comune pelata di Mark Strong e Michael Rosenbaum rende il tutto ancora più divertente e agghiacciante.

US (2019) di Jordan Peele

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Perciò, così parla l’Eterno: Ecco, io faccio venir su loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò.

Geremia 11:11

Jordan Peele ritorna al cinema in grande stile con un altro thriller-horror politico intitolato US e tradotto in Italia con “Noi”, ovviamente in modo sbagliato facendo perdere persino l’ambivalenza del titolo. US non è solamente un pronome complemento in inglese, ma è anche l’acronimo di United States.
Il regista afroamericano ha chiaramente puntato per questa scelta simbolica non solo per esplicitare la sua critica nei confronti dell’America, ma anche per risvegliare il subconscio degli spettatori che verranno criticati, mutilati, estraniati ed inquietati durante la visione.

Jordan Peele, inizialmente un comico, ha ottenuto la sua fama grazie alla sua opera prima Get Out che attraverso il genere thriller horror criticava aspramente il buonismo e il liberalismo americano, mostrando l’altra faccia della medaglia del razzismo negli USA. Il film seppur dirompente e horrorifico, riusciva comunque a bilanciare sapientemente l’ironia e la comicità insieme all’inquietudine generale della trama. L’originalità della pellicola incredibilmente è stata così premiata con l’Oscar alla miglior sceneggiatura originale, consacrando la figura di Jordan Peele negli ambienti più mainstream hollywoodiani.

La popolarità non ha comunque annacquato il suo talento, tant’è che da semplice regista è diventato un grande cineasta, infatti nel periodo di pausa tra i suoi due film, ha deciso di produrre BlackKklansman di Spike Lee, ormai suo mentore ed amico, e di occuparsi del revival della serie tv scifi antologica degli anni ’50 The Twilight Zone, famosa nel saper sfruttare il genere fantascientifico per trattare tematiche socio-politiche. Ed è proprio da un episodio di quest’ultima che al nostro giovane cineasta venne l’ispirazione per dirigere il suo secondo film, US.

La trama parte con un flashback nel 1986, dove la nostra protagonista Adelaide da bambina si trova in un Luna Park con i suoi genitori. Mossa dalla curiosità, si imbatte in un’attrazione horror ed entrandovi, si ritrova circondata da mille specchi che la portano ad un certo punto a trovarsi a faccia a faccia con un suo clone. Dopo lo spavento, la bambina scappa subito dalla galleria degli specchi e raggiunge i suoi genitori.
Ritornando ai giorni nostri, vediamo la nostra Adelaide cresciuta e sposata con tanto di famiglia, che ancora rimembra la sua scioccante esperienza da piccola, rendendola tormentata e taciturna. La sua personalità introversa non le preclude però il fatto di essere una madre amorevole e protettiva con i suoi figli.
Sotto consiglio di suo marito, decide quindi di svagarsi un po’ andando in vacanza al mare, dove si scopre però che la località marittima è la stessa in cui anni prima aveva avuto il famoso episodio traumatico nel luna park.
Nonostante la località turistica sia accogliente e coinvolgente, Adelaide sembra l’unica fuori luogo nella famiglia, mostrandosi schiva di fronte agli amici di suo marito e sempre più spaventata da una presenza oscura onnipresente che lei avverte come pericolo imminente.
La sua paura più grande si concretizza, infatti una sera si assiste ad una “home invasion” da parte di Doppelgänger identici ai suoi figli, a suo marito e anche a sé stessa. I cloni malvagi mostrano comunque sottili differenze come nelle espressioni facciali, nelle gestualità, nel vestiario e nei modi di comunicare che inquietano la famiglia ordinaria, ormai imprigionata in casa e tenuta in ostaggio dai loro corrispettivi malvagi che vogliono ucciderli.
L’unica che sembra parlare in modo comprensibile è Red, la Doppelgänger di Adelaide, che spiega la natura dei doppioni maligni chiamati “le ombre”, venute dalle tenebre degli stessi esseri umani e che ora reclamano vendetta e un giudizio universale che le ponga giustamente a sostituirsi all’ordine precostituito.
La famiglia di Adelaie dopo varie peripezie riesce a liberarsi dalle grinfie delle loro ombre, scoprendo che il fenomeno anomalo a cui hanno assistito non è solamente circoscritto al loro quartiere, ma all’intero pianeta, tant’è che i notiziari dipingono uno scenario da invasione zombie, lasciando i nostri protagonisti abbandonati a loro stessi.

Ancora una volta Jordan Peele riesce a confezionare un thriller horror politico sensazionale, che seppur sia più virtuoso nella regia rispetto a Get Out e ancora più profondo nella critica all’american way of life, pecca parzialmente nella sceneggiatura nel momento in cui cerca di razionalizzare al pubblico l’esistenza delle ombre, che potevano benissimo funzionare senza uno “spiegone” sul finale che di conseguenza crea involontariamente falle logiche e buchi di trama.
Nonostante questo piccolo neo, che comunque può trovare una giustificazione plausibile con un’ulteriore visione del film e una successiva riflessione, la pellicola non viene intaccata totalmente nella sua qualità cinematografica ed emblematica simbologia, che per certi versi ricorda gli zombie movie di Romero, che attraverso i corpi putridi dei non morti, raccontavano la crudeltà della società e la lotta di classe tra proletariato e borghesia.

Il regista difatti, riprende chiaramente le critiche di Romero riadattandole al nostro contesto contemporaneo dove stavolta si hanno delle ombre che inseguono le nostre paure, la nostra stabilità, il nostro benessere, il nostro comfort, la nostra ricchezza. Perché se gli umani agiscono in solitario pensando esclusivamente ai propri interessi, le ombre agiscono in collettività, formando una catena umana che parte dalla località balneare fino ad arrivare ai confini del mondo. 
L’uso della forbice da parte loro è simbolo di rottura con la società umana che viveva alle loro spalle, decidendo così di tagliare il legame che li legava alle loro controparti umane, di rompere con il passato e la sofferenza a spese dei loro stessi creatori.
La genesi di questi corpi senza anima e dunque animaleschi, non era niente meno che frutto di un esperimento governativo di clonazione della popolazione statunitense sotterraneo al luna park di inizio film; fallito in quanto non riusciva a creare un’anima per questi corpi, ma solamente una malsana copia difettosa dell’essere umano.
L’emulazione fallita, l’obbligatorietà di seguire le gestualità delle loro controparti in superficie, il fardello di vivere in una condizione di schiavitù sotterranea e la mancanza di un vero approvvigionamento, sono gli elementi scatenanti di questa ribellione guidata da Red, la Doppegänger della nostra protagonista.

La critica al capitalismo e al liberismo americano sono nettamente marcati nella pellicola, dove all’inizio del film si illustrano i vari tunnel dell’america popolati da persone che si sono impoverite a discapito di altre che si sono arricchite a loro spese.
L’utilizzo dei corpi mutilati, delle facce sfigurate e dei movimenti che queste ombre compiono per emulare i loro alter ego che abitano nel mondo in superficie, denuncia chiaramente l’iniquità della massa popolare, soprattutto quella di ceto medio-basso, a rincorrere modelli futili e irraggiungibili di status symbol come celebrità, influencer, mode e marche di lusso.
Il discorso sulla diversità e sulla disuguaglianza non risulta comunque reiterato e banale, anzi, la chiave di lettura principale viene rappresentata dalla famiglia protagonista della pellicola, che è emblematica nel descrivere la complessità della nostra esistenza e della banalità del male.

Il film infatti, ci mostra come è il contesto e la classe sociale di appartenenza ciò che condiziona il nostro modo di vivere e di interpretare il mondo, e che le barriere sociali si ergono unicamente nel momento in cui smettiamo di dialogare con chi è diverso da noi.
L’origine del male nasce dunque nel momento in cui il benessere dell’altro si riflette sul malessere del prossimo, che prima o poi quest’ultimo, nella brutalità e nella violenza, cercherà di prevaricare sull’altro per vendicarsi dell’angherie subite e riprendersi il suo legittimo ruolo di predominanza, inducendo l’umanità in un circolo vizioso senza fine.
Lo dicotomia filosofica tra Red e Adelaide rappresenta l’ultimazione di questo discorso che seppur diluito nello spiegone, non inficia minimamente sul messaggio socio politico nel finale, che si conclude con un sorriso inquietante e forse benevolo, ricordando agli spettatori che ognuno di loro racchiude i propri demoni interiori, che potrebbero confermare la loro crudeltà o la loro dubbia morale.

La regia del film svolge un ruolo fondamentale nel descrivere tutti questi sottotesti che caratterizzano la pellicola che inquadra in maniera maniacale il movimento dei corpi e l’espressione degli attori, soprattutto quando il volto dell’attrice Lupita Nyong’o piange; il primo piano di Jordan Peele evidenzia l’occhio tondo bianco sbarrato che lacrima, rigando la faccia scura della donna. Un elemento ricorrente anche in Get Out, quando l’attore Daniel Kaluuya viene ipnotizzato sulla poltrona.

L’unione tra l’interpretazione degli attori e le inquadrature trasmette un’espressività di completa alienazione e terrore, portando lo spettatore ad empatizzare maggiormente con le emozioni dei protagonisti.
I volti e i corpi rappresentano infatti la dinamicità della regia, dirigendo perfettamente il cast che deve anche recitare un doppio ruolo, aumentando la difficoltà dell’interpretazione che produce comunque risultati eccelsi, soprattutto Lupita Nyong’o che da donna indifesa passa a diventare un’assassina psicotica.
Subconscio ed inconscio vengono rappresentati perfettamente anche dall’alternarsi delle varie dimensioni sottosopra, con delle scenografie spettacolari e un alternarsi del montaggio efficace a rappresentare da una parte la sporcizia e l’oscurità delle ombre, e dall’altra gli ambienti solari e spledenti degli esseri umani.
La scontro finale tra Adelaide e Red che viene rappresentato come una danza macabra al limite della sopravvivenza è geniale in quanto rappresenta la conflittualità di questi due personaggi che seppur simili, sono destinati a scontrarsi, il tutto accompagnato da un montaggio da cardiopalma e da una colonna sonora inquietante che rende la scena ancora più grottesca.

Concludendo, Jordan Peele si conferma essere uno dei registi più interessanti del nostro secolo che da semplice comico si è trasformato in un grande cineasta di talento che ama il Cinema di genere e che sa come intercettare il suo pubblico trasmettendogli messaggi socio politici non indifferenti, che non scadono in banali rappresentazioni o in false ipocrisie tipiche dell’America Liberal Radical Chic.
US, nonostante sia leggermente inferiore a Get Out per scrittura, ma notevolmente superiore per la regia, dimostra come il talento del giovane cineasta afroamericano debba ancora crescere, ma che sicuramente regalerà ogni volta pellicole originali e dirompenti proprio come il suo collega Spike Lee.

Voto 8.5

John Wick 3 – Parabellum (2019) di Chad Stahelski

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Non ho mai cercato l’efferatezza fine a se stessa, ho sempre privilegiato la poesia, l’eleganza dell’azione.

23 ottobre 2009, John Woo

10 anni dopo…

Si vis pacem, para bellum

21 maggio 2019, Winston, direttore del Continental a New York

C’era un tempo in cui i film action erano i Fast & Furious con The Rock e Vin Diesel e altre produzioni pecorecce intrise di patriottismo e machismo americano, oggi invece sono i John Wick con Keanu Reeves a sobillare il solipsismo del genere action che necessitava da tempo di una bella ventata d’aria fresca.

Baba jaga, Boogeyman, l’uomo nero, sono questi i soprannomi che si è guadagnato il temibile killer della mala John Wick, figura leggendaria e temuta dalle alte sfere della criminalità organizzata. La mitologia che gira attorno al noto assassino costruita sapientemente nel corso dei vari film, è volutamente macchiettistica e sopra le righe proprio per rendere credibile e spettacolare la sua storia, il suo mondo e i personaggi con cui interagisce nel corso delle sue furie omicide.
Ormai è entrato nell’immaginario collettivo John Wick che ammazza tutti solamente per la morte del suo cagnolino, tant’è che è diventato un meme per rappresentare la sua enorme forza e presunta immortalità filmica.

Il successo dunque del personaggio e del suo franchise va a Chaled Stahelski, stunt-man con un curriculum lungo e ricco di esperienze tra cui nella trilogia di Matrix dove faceva la controfigura per Keanu Reeves.
Nel 2014 decide così di mettersi in gioco con il suo amico stunt-man David Leitch per dirigere il primo capitolo di John Wick, che grazie al suo passato nel cinema action e da stunt-man, costruisce scene d’azione perfettamente coreografate e seguite da una macchina da presa ferma e stabile nell’inquadrare l’azione, un pregio che oggigiorno si fa sempre più raro.
La tecnica e lo stile che contraddistinguono i capitoli di John Wick rispetto agli altri film action contemporanei, è innegabile che sia anche nel montaggio, che non taglia l’azione, ma la segue in modo che risulti chiara, cinetica, visibile e realistica allo spettatore. La regia di Stahelski infatti ricorda molto quella del cinema orientale dove il pugno, il calcio, lo sparo sono realmente in esecuzione e non nascosti artificiosamente dal montaggio schizoide e iperdinamico hollywoodiano. Un altro aspetto in comune con i colleghi asiatici spicca anche nelle straordinarie coreografie che mette in scena il regista, che mischia le sparatorie di John Wick con tecniche di combattimento miste tra arti marziali e boxing occidentale.
Il connubio di tutti questi aspetti rendono l’azione in John Wick sempre creativa e versatile, tramutando le brutali uccisioni in una danza della morte instancabile ed estremamente divertente.

Ovviamente Chaled Stahelski non abbandona tutto all’azione, ma decide insieme allo sceneggiatore Derek Kolstad di costruire una storia di contorno valida nel rappresentare la furia della triste vendetta di John Wick, costruendogli attorno un microcosmo molto interessante che permette di caratterizzare ed approfondire il ruolo del protagonista nei vari film e di invogliare anche il pubblico a seguire una storia che sulla carta poteva sembrare banale e scontata.

Con il terzo capitolo intitolato PARABELLUM, che tradotto dal latino all’italiano significa “preparati alla guerra”, si riprende la storia di John Wick iniziata col primo e approfondita nel secondo, dove lo troviamo alle strette con l’ultimatum della scomunica ufficiale entro un’ora dal Continental, lega degli assassini, e dalla taglia sulla sua testa di 14 milioni di dollari piazzata dalla Gran Tavola, la più alta gerarchia della criminalità organizzata nel globo.
Avendo tutto il mondo contro e pochi alleati su cui contare, John Wick è costretto a trovare un modo per rimuovere la scomunica e ovviamente a uccidere tutti gli assassini che proveranno a riscuotere la sua taglia.

Indubbiamente la regia è più virtuosa che mai e le scene d’azione da cardiopalma, soprattutto l’inseguimento a cavallo a New York, il combattimento brutale a Chinatown e l’uso dei cani da combattimento dell’amica assassina Sofia nello scontro a Casablanca.

Confrontandolo con gli altri capitoli però, quest’ultimo mostra i primi sintomi della ripetitività delle vicende di John Wick che ormai sembra abbia un esito sempre scontato, nonostante la trama si espanda ulteriormente con nuovi personaggi e ambientazioni.
Un leggero squilibrio tra combattimenti e dialoghi si percepisce come nello scontro finale con i giapponesi nel Continental di New York che viene protratto a livelli troppo inverosimili. Il finale ravvisa anch’esso una dilatazione eccessiva funzionale alla voglia di produrre un sequel, che seppur parta da delle premesse molto intriganti, macchia una pellicola che poteva benissimo optare per un finale mozzafiato per concludere la trilogia.

Nonostante i difetti che segnalano la voglia da parte dei produttori di lucrare maggiormente sul successo del franchise, John Wick 3 Parabellum si conferma essere uno dei migliori film action degli ultimi anni grazie ad un team creativo che sa come costruire un buon prodotto d’intrattenimento con delle chiavi di lettura sia sul valore della vita e dell’iniquità della vendetta sia sul metacinema con particolare riferimento a Matrix.

Se il franchise mantiene alto il livello qualitativo come quello di Scream, allora ben venga andare al Cinema per un John Wick Capitolo 4 e divertirsi spensierati in sua compagnia.

Voto 8

Ted Bundy – Fascino criminale (2019) di Joe Berlinger

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I am the most cold-hearted son of a bitch you will ever meet.

Ted Bundy

Non sono mai stato un esperto di serial killer, ma son sempre stato interessato ai loro modus operandi e dalla loro psiche tra cui Jack lo squartatore, Zodiac e il macellaio di Cleveland. Ovviamente non condividendo la loro morale, ammesso che ce l’abbiano.
Convinto da un amico appassionato di serial killer ed essendo anch’io curioso sulla storia di Ted Bundy, mi sono convinto a vedere il film a lui dedicato, seppur riluttante dalla presenza di Zac Efron, attore piacione mediocre adorato principalmente dalle BM.

Incredibilmente proprio per questa sua caratteristica funziona nei panni di Ted Bundy che sfruttava proprio il suo fascino per adescare ed uccidere le ragazzine attirate dal suo sex appeal.
Il regista Joe Berlinger, che già si era occupato di raccogliere le interviste sul noto serial killer per una miniserie su Netflix, riesce a far recitare perfettamente Zac Efron, che per tutto il film sembra essere un angioletto innocente dotato di un grande carisma.

Uno dei grandi pregi del film, sta proprio nella costruzione della storia attorno alla vita familiare e relazionale tra Ted Bundy e la sua fidanzata, dove lo spettatore osserva con gli occhi di quest’ultima il susseguirsi delle indagini che porteranno poi allo spannung finale dove finalmente emerge la bestia e si svela uno dei più efferati omicidi del serial killer.

L’ambiguità sulla figura di Ted Bundy che da bravo uomo di casa in realtà nascondeva il marciume nei suoi passatempi notturni, viene rappresentata in modo didascalico ma per niente scontato all’interno della pellicola, inducendo lo spettatore a dubitare sull’effettiva colpevolezza dell’omicida seriale.
Una situazione speculare a quella realmente avvenuta nella realtà dove schiere di ragazze difendevano in tribunale l’innocenza di Ted Bundy, che grazie al suo carisma riusciva sia a persuadere le persone sia a tener testa alla corte di giustizia della Florida, quest’ultima intenzionata ad ottenere lo scalpo del serial killer.

Forse l’unico difetto è che la pellicola non mostra l’origine della follia del pluriomicida affascinante, anche se alla fine credo sia una precisa scelta del regista visto che esistevano già due lungometraggi a riguardo.

Insomma, un film documentaristico che racchiude però una narrazione alternativa nel reinterpretare la figura di Ted Bundy in una chiave più adulta e contemporanea, che fa della verità il suo mistero, riuscendo finalmente a dare a Zac Efron un ruolo dignitoso in cui recitare.

Voto 7+

Brightburn (2019) di David Yarovesky

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Una cosa l’abbiamo imparata, giusto? I diavoli non vengono dall’inferno sotto di noi, no… no, vengono dal cielo.

Lex Luthor

Cosa sarebbe successo se Superman fosse stato cattivo? E se fosse stato un comunista? Beh questa è un’altra storia… Ma se veramente avesse sin dalla nascita il desiderio di conquistare il mondo?

Brightburn cerca di rispondere a questo ipotetico scenario da WHAT IF, ovvero quel genere di storie che si occupano di narrare realtà alternative ad una storia canonica nota al pubblico.
Un esempio lampante sono le ucronie come la vittoria dell’asse nella seconda guerra mondiale oppure in Bastardi senza gloria dove Quentin Tarantino uccide Hitler in un Cinema per mano di una task force americana.

Le premesse di Brightburn partono dunque anch’esse da una storia d’origine simile a quella di Superman, che però cambia nel momento in cui il bambino comincia a manifestare i primi segnali di squilibrio mentre iniziano le prime fasi dell’adolescenza. 
Cresciuto ed amato dai suoi genitori terrestri sterili, il ragazzino alieno comincia a sviluppare una propria coscienza nel momento in cui entra in contatto indiretto con la sua astronave chiusa dentro la stalla della fattoria dei genitori, diventando sempre più freddo e distaccato con i suoi parenti, mutando la sua personalità fino a scatenare la furia distruttiva dei suoi superpoteri contro chiunque voglia fermarlo.

Il film prodotto da James Gunn e scritto dai suoi fratelli, partiva dall’idea geniale di rappresentare una versione distorta dell’Uomo d’Acciaio con tinte horror slasher, che potesse veramente riportare in auge l’essenza del supereroe kryptoniano al Cinema con una reinterpretazione più autoriale sul noto personaggio fumettistico. 
L’intento, seppur con qualche cliché di troppo ed un minutaggio forse un po’ striminzito, gode comunque di un ottimo soggetto ed un’esecuzione funzionale nel raccontare l’evoluzione maligna di un essere così minuto, ma allo stesso tempo così potente da poter radere al suolo un intero pianeta.

Le critiche maggiori alla pellicola sono state attribuite allo spreco di un’idea potenzialmente interessante per una mancata motivazione della cattiveria del protagonista, quando in realtà la critica non sussiste nel momento in cui il regista ci fa percepire che il male nasce non dalla volontà di Brandon Breyer, ma bensì da un collegamento telepatico dell’astronave che si presuppone sia collegata ad una mente alveare aliena con capacità di calcolo interplanetarie. Un concetto astratto che può facilmente non essere colto immediatamente e razionalmente, ma che si sedimenta nella nostra mente col passare dei giorni quando si riflette sulla visione del film.
Il lungometraggio infatti, non punta solamente a raccontare un dramma familiare ed un dilemma esistenziale, ma punta soprattutto a riprende il concetto dell’ipnosi aliena attraverso soluzioni registiche che puntano a creare un’inquietudine generale intorno alla figura del protagonista che sembra mostrare segnali di umanità, ma che vengono soppressi da questa seconda personalità maligna inspiegabile, quasi lovecraftiana, che spinge il ragazzino ad indossare una maschera ed un costume che non rappresentano il suo essere supereroe, ma il suo essere superiore a qualunque legge ed ordine naturale terrestre.
I comportamenti anomali del ragazzino vengono scambiati inizialmente dai genitori come capricci dell’adolescenza con l’inizio della pubertà, fino a diventare talmente sospetti che il nucleo familiare comincia ad entrare in una fase disfunzionale dove il figlio non riconosce più la legittimità degli adulti che diventano sempre più alieni ai suoi occhi, tant’è che alla rivelazione della sua vera identità, Brandon Breyer cessa ogni tipo di legame col genere umano.

La spirale di violenza che si consuma per fermare l’ascesa di una divinità che potrebbe spazzare via il mondo, viene dipinta perfettamente dalla regia di David Yarovesky che mostra egregiamente la vanità e l’efferatezza degli omicidi sovrannaturali del ragazzino demoniaco semidivino in contrapposizione all’amore e alla disperazione della sua famiglia che non riesce a rinsavire l’anima extraterrestre corrotta del protagonista.

Insomma, un film horror supereroistico che attraverso suggestioni visive e chiavi di lettura per niente banali, ci illustra l’inizio di un potenziale scenario apocalittico se un domani un neonato Superman dovesse cadere dal cielo in mezzo alle nostre case per poi crescere e un giorno dominare la terra. Un lungometraggio che non brilla particolarmente per la scrittura che punta a cliché triti e ritriti come i jumpscare, ma ha dalla sua un grande sottotesto alla base che grazie ad una regia di un buon mestierante come David Yarovesky, riesce comunque a differenziarsi dal classico schema Marvel che ormai sembra monopolizzare il genere supereroistico.

E per i fan più accaniti di Superman questo film potrebbe benissimo essere un pilot per una timeline alternativa di Smallville dove regna un Superman malvagio contro una fazione ribelle capeggiata dalla Justice League, dove quest’ultima di sicuro sulla carta risulterebbe più intrigante di quella vista al Cinema nel 2017 che ha segnato la morte simbolica del DC Extended Universe.

Voto 8

Spider-man Far From Home (2019) di Jon Watts

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Dopo l’enorme delusione di Homecoming che si salvava unicamente per l’interpretazione di Michael Keaton, le mie aspettative rasentavano lo zero per questo sequel denominato “Far From Home“.

Il problema maggiore non era tanto la terza ed ennesima trasposizione dell’Uomo Ragno al Cinema, ma la totale banalizzazione e piattezza con cui il regista Jon Watts trattava lo spirito del supereroe, snaturando il personaggio persino nella sua concezione originaria. 

Il risultato fu un Ironman junior mal riuscito con deliri preadolescenziali per niente in linea con i drammi e tempi comici di Peter Parker aka Spider-man, spogliandolo così della peculiarità del supereroe con superproblemi, che è una caratteristica fondativa per la genesi e lo sviluppo del personaggio.
La serietà delle grandi responsabilità e l’artigianato dell’intelletto di Spider-man venivano così sostituite da una rincorsa futile ed infantile allo status symbol di Iron man, che non solo distruggeva lo spirito metropolitano e proletario dell’arrampicamuri, ma addirittura risultava pretenziosa nel veicolare un messaggio fintamente buonista moralista che si illudeva di trasmettere al pubblico una reale crescita caratteriale e morale del personaggio.

Se si dovessero paragonare le precedenti pellicole sull’Uomo Ragno rispetto a Homecoming, persino nei travagliati “The Amazing Spider-man” di Marc Webb si aveva una certa profondità nel trattare i dubbi, i drammi, gli amori e le responsabilità di Spider-man, che si intrecciavano indissolubilmente allo scontro con i vari villain, sviluppando così un climax sempre più ascendente fino allo scontro finale catartico necessario per la formazione del supereroe.
Il bisogno di costruire una buona storia da raccontare e dei personaggi carismatici da sviluppare attorno alla vita di Peter Parker, sembravano quindi ormai degli obiettivi preliminari per girare un buon film su Spider-man. Peccato che in Homecoming non sono stati presi per niente in considerazione, riducendo la pellicola ad una classica puntata di Disney Channel con una regia piatta e televisiva, oltre che ad una sceneggiatura banale al limite del cringe.
Il problema dunque, non solo era dal punto di vista della scrittura, ma anche della regia, che essendo priva di una vera dinamicità nel rappresentare la spettacolarità dell’arrampicamuri, non regalava nemmeno inquadrature artistiche degne di essere ricordate, ammazzando di fatto tutto il pathos della pellicola che stentava a voler uscire.

L’insieme di queste doverose premesse servono a descrivere non solo la mediocrità di questa nuova interpretazione eccessivamente teen dello Spider-man di Tom Holland, ma anche della totale assenza della potenza cinematografica che il personaggio si portava alle spalle, che viene sacrificata da una logica fumettofila fine a sé stessa. L’autorialità e l’adattamento su schermo vengono così snaturati della loro funzione principale di differenziazione dalla controparte cartacea, per inseguire un target più giovane e in linea con gli sketch comici del Marvel Cinematic Universe.

Essendo contrario a questa svolta frivola della Marvel ed apprezzando maggiormente Spider-man quando veste i panni da comprimario nei film corali con gli Avengers, l’unico fattore potenzialmente interessante di questo sequel era ed è a tutti gli effetti il villain Mysterio.

La trama infatti, ruota sull’ambiguità dell’illusionista verde-viola, che dopo gli eventi devastanti di Avengers Endgame si erge come nuovo supereroe del mondo in quanto suo compito sconfiggere gli Elementali, creature giganti formate dai 4 elementi (Acqua, Terra, Fuoco, Aria), che vogliono distruggere il pianeta Terra per far proliferare la loro razza.
Peter, che intanto si trovava in vacanza in Europa con la sua classe, viene coinvolto da Nick Fury a collaborare con Quentin Beck (alter ego di Mysterio) per fermare la minaccia delle creature metafisiche.

La partnership che si crea tra i due “eroi” diventa perciò imprescindibile per sconfiggere gli Elementali, dove però Spider-man preferisce restare con i suoi amici a godersi la vacanza mentre Mysterio è intenzionato a diventare una sorta di nuovo “Avenger” per colmare il vuoto lasciato dalla vecchia guardia alla fine di Endgame.
La conflittualità tra i doveri di un supereroe e una vita normale da adolescente, tormentano la sfera emotiva di Peter Parker, che dopo la morte di Iron man si vede costretto a raccogliere la sua eredità. Nel suo processo di identificazione nel mondo post-invasione di Thanos, trova in Quentin Beck una figura comprensiva e amichevole, dove quest’ultimo cercherà in tutti i modi di conquistare la fiducia del giovane ed ingenuo supereroe ragnesco.

Per chi ha letto i fumetti o per chi conosce un minimo il personaggio di Mysterio, può già trarre delle conclusioni su come si svolgeranno gli eventi nel film. L’illusionista è infatti famoso per le sue buone doti nel realizzare grandi illusioni attraverso laboriosi effetti speciali e nel fare buon viso a cattivo gioco per fare profitto ed ottenere fama.
Nonostante quindi la prevedibilità del plot twist in cui si rivela essere il cattivo e l’autore dell’apparizione degli Elementali, il film se ne esce dignitosamente rispetto al suo capitolo precedente sia dal punto di vista della scrittura che dal punto di vista tecnico.

Chiariamoci, la regia televisiva e la scrittura infantile permangono per certi aspetti nel corso della pellicola, ma la posta in gioco della trama è all’altezza delle basse aspettative, che possono essere ben appagate da un carismatico Jake Gyllenhaal, che non acquisisce forza soltanto grazie alla sua poliedrica interpretazione, ma anche da una sceneggiatura che permette al suo personaggio di giocare le sue carte vincenti, rendendolo di fatto un villain enigmatico, scaltro, machiavellico ma soprattutto affascinante nella sua dubbia morale.

La regia maturata di Jon Watts aiuta notevolmente a rappresentare la minaccia di Mysterio, che grazie alle sue incredibili illusioni, riesce a sottomettere Spider-man al suo gioco mentale, che instilla il dubbio allo spettatore se ciò che vede sia reale o meno. La gestione degli effetti speciali per costruire le immense sequenze psichedeliche contro l’uomo ragno sono spettacolari nel rappresentare le sue paure, che si riflettono perfettamente sui suoi errori e sulle sue insicurezze. 

Le apparenze e la fiducia sono dunque il tema centrale di questo far from home, che veicola una retorica accettabile perfettamente in linea con i tempi moderni, dove le persone sono sempre più alienate dalla realtà grazie alle nuove tecnologie che plasmano le nostre percezioni e decisioni.

Allontanandosi dall’affascinante e diabolica figura di Mysterio, cominciano ad emergere i principali difetti della pellicola che restano e resteranno sempre legati allo stile teen alla Disney Channel.
Nonostante abbiano tolto tantissimi elementi cringe di Homecoming, il cast a supporto di Tom Holland non spicca particolarmente per importanza e profondità nella trama del film. L’amico Ned rimane sempre una spalletta comica ancora più inutile del precedente capitolo e il nuovo interesse romantico “MJ” vuol sembrare atipico e differente rispetto alle precedenti donzelle dal salvare, quando in realtà non si riesce a percepire una reale sensualità ed attrazione tra i due teenager. Il tutto si conferma verso la fine del film, dove il doppio bacio anonimo tra Peter e MJ assomiglia più ad uno scambio affettuoso tra due undicenni piuttosto che ad un bacio passionale e romantico sotto la pioggia a testa in giù come lo era stato nel primo Spider-man di Sam Raimi. Se non spiccano neanche i personaggi secondari legati a Peter Parker, il resto del cast resta anonimo e macchietta, regalando qualche battuta divertente che al massimo può far ridere un ragazzino delle medie.

L’amalgama di tutti questi aspetti frivoli condizionano perciò anche le caratteristiche del protagonista, che invece di maturare nel corso dei film del MCU, rimane sempre nella sua dimensione ingenua e irresponsabile che non rappresenta per nulla la figura di un normale sedicenne e dunque anche di Spider-man stesso. La necessità di doversi interfacciare con le tecnologie di Iron man e con il suo team di supporto, non fa altro che avvalorare la tesi della protogenesi di un Iron man junior sempre più dipendente dagli altri, senza prima arricchire sé stesso delle qualità che lo differenziano da Tony Stark.

Riassumendo, Spider-man Far From Home si presenta come un seguito molto più interessante rispetto al suo capitolo precedente soprattutto per la carismatica presenza di Jake Gyllenhaal che, grazie ad uno script più originale del solito, riesce a giganteggiare tra il cast di attori presenti sul set, portando il tono teen della pellicola ad atmosfere più drammatiche ed oscure.

Voto 7

Midsommar (2019) di Ari Aster

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Dopo l’oscuro e satanico Hereditary, Ari Aster ritorna dopo un anno con un horror lucente e pagano, realizzando un’opera magistrale che denuda le nostre oscurità alla chiara luce del sole.

Dani, ragazza sensibile e distrutta da un lutto familiare, decide di intraprendere un viaggio in Svezia con il gruppo di amici del suo ignavo e distaccato fidanzato. All’arrivo dei ragazzi al villaggio svedese sperduto nel nord della nazione, gli autoctoni del luogo si dimostrano inizialmente gentili e premurosi. Con l’avanzare dei giorni però, la situazione sembra precipitare fino a sfociare in un rito finale che conferma la vittoria del fondamentalismo pagano sull’immoralità della nostra società moderna.

Ari Aster mette in scena un’odissea allegorica ed orrorifica che analizza la distruzione delle relazioni umane e i grandi peccati della nostra contemporaneità, dove quest’ultima, di fronte ad un corpo collettivista e indecifrabile, crolla sotto ancestrali incantesimi e sfarzose festività.

Midsommar si conferma un’opera magistrale capace di offrire attraverso i suoi numerosi simbolismi pagani, molteplici chiavi di lettura attraverso una regia geometrica, suggestiva, elegante, ma allo stesso tempo esplicita e disturbante.

Voto 9+

C’era una volta a…Hollywood (2019) di Quentin Tarantino

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Io amo Quentin Tarantino. Amo il suo Cinema. Amo il suo essere cinefilo. Amo il suo citazionismo. Amo i mondi che crea. Amo le sue storie. Amo i suoi personaggi. Amo la sua poetica.  Ed amo il fatto di essere sempre a 200 passi indietro nel cogliere tutti i suoi rimandi al Cinema del passato. Perché è impossibile stargli dietro. Perché è impossibile comprendere a pieno la filosofia dell’artista. Perché solo l’artista è pienamente consapevole dell’Arte che crea e di tutti quegli eventi che nella sua vita hanno contribuito a renderlo l’uomo e il regista che è diventato. Ed è quindi impossibile disprezzare la nona fatica tarantiniana.

C’era una volta a…Hollywood rappresenta dunque il film più personale di Quentin Tarantino, in cui conscio di essere arrivato alla fine di una carriera ormai trentennale, decide di raccontare la sua adolescenza, la sua gioventù, i suoi sogni più intimi, la sua visione dell’Hollywood anni ’60 che non esiste più, e che lui vorrebbe rivivesse ancora una volta.
Il suo amore per il Cinema di quell’epoca viene rivissuta attraverso il ricordo delle serie tv western, degli spaghetti western, dalle coreografie di Bruce Lee, dalla bellezza di Sharon Tate, dalla cultura hippy, dagli attori, registi, produttori e stunt man giunti ormai al capolinea della loro parabola “westerniana”, dai cinema popolari e d’essai, dalle feste notturne nei quartieri di hollywood e infine dalla musica popolare dell’epoca così spensierata ed eterea.

La nostalgica visione di Quentin Tarantino di quel mondo viene rappresentata dalla quotidianità degli eventi che segnano le vite dei due protagonisti, ovvero Rick Dalton, attore decadente westerniano costretto a reinventarsi e Cliff Booth, sua controfigura e migliore amico anch’esso in cerca di nuovi ruoli per rilanciare la sua precaria carriera. Il percorso lento ed arduo nelle loro corrispettive carriere rappresenta perfettamente la decadenza di una Hollywood ormai saturata dal suo passato glorioso, che di fronte alla concorrenza della Televisione e del Cinema straniero, soprattutto italiano, è costretta a reinventarsi e a trasformarsi in qualcosa di completamente nuovo, sacrificando così tutti coloro che non vogliono abbandonare il vecchio sistema.
Il bisogno di importare registi stranieri come Roman Polanski grazie al successo di Rosemary’s Baby e di attori orientali come Bruce Lee per ricreare un nuovo tipo di Cinema action, sono tutti segnali di un cambiamento che Rick Dalton non è disposto ad accettare, soprattutto quando deve anche sorbirsi le mode hippy del momento. La lettura metacinematografica su Rick Dalton è semplicemente geniale, perchè passa inizialmente dalla psicanalisi del produttore interpretato da Al Pacino in cui gli illustra la causa del suo problema nel recitare sempre nel ruolo stereotipato del cattivo, successivamente passa ad un’autocommiserazione metanarrativa in cui dalla disperazione ritrova la forza di volontà di recitare nuovamente grazie agli elogi di un’attrice bambina, che gli consentirà infine di cambiare definitivamente come persona insieme al suo socio stuntman andando a girare film italiani a Roma per recuperare la fama perduta, con la consapevolezza che tutta la sua vita cambierà sia a livello artistico sia a livello economico. I parallelismi con le ormai già mature carriere di Tarantino, di DiCaprio e di Pitt sono ovviamente palesi, ma è soprattutto la mano del regista che da forza al corpo attoriale nel personalizzare i propri personaggi rendendoli autentici ed autobiografici.

La contaminazione del Cinema americano è però soltanto una parte del racconto, che non si vuole soffermare soltanto attraverso i suoi due protagonisti, ma si vuole spostare anche nella quotidianità della Los Angeles del 1969, indagando sulla carriera di Sharon Tate e sul crescente fenomeno urbano degli hippie.

ll modo in cui Tarantino vuole rappresentare la prima moglie di Polanski è molto elegante ed etereo, in cui mostra una giovane attrice orgogliosa della sua nascente carriera e desiderosa di sentirsi lusingata dal suo pubblico. La spiccata spontaneità e solarità di Sharon Tate si riflette perfettamente nella sua mondanità nel vivere la sua nuova vita lussuosa ad Hollywood, dove vediamo il culmine della sua felicità nel momento in cui entra in un Cinema e guarda sé stessa recitare in un film. Tarantino per farci empatizzare ancora di più con la nascente celebrità, ci pone davanti ad un’altra lezione metacinematografica, in cui noi spettatori ci troviamo di fronte allo schermo della sala di Sharon Tate, come se noi stessimo guardando il film con lei.

La chiave risolutiva all’incrocio delle vite di questi attori di Hollywood e nella rappresentazione della loro quotidianità è da trovarsi nel movimento hippie, dove Tarantino fa uscire tutta la sua anima politica nel raccontare la tragedia di una fazione di questo movimento culturale degli anni sessanta che ha segnato per sempre la storia della gloriosa Hollywood Classica, decretandone la fine.
La rappresentazione sporca, logora, povera, spontanea ed ancestrale dei gruppi hippy di Los Angeles è funzionale a raccontare una società parallela ed antitetica alla sfarzosa vita mondana hollywoodiana, ma che trova un punto d’incontro con quest’ultima nel momento in cui gli ideali, il desiderio di libertà e l’ingenuità degli hippy vengono manipolati per soddisfare l’ego di un uomo, Charles Manson, pronto ad incanalare l’insoddisfazione giovanile contro il sistema hollywoodiano marcio e violento.
Il vagabondaggio, l’occupazione abusiva, l’uso di droghe e il culto del sesso sono tutti elementi comuni tra il criminale e il gruppo dei figli dei fiori, che unendosi in un’unica “famiglia” decidono di compiere il famoso omicidio nell’abitazione di Sharon Tate, in nome di una vendetta contro la cultura violenta del Cinema e della Televisione statunitense.
In contrasto a questa logica irrazionale che rappresenta un incubo per Quentin Tarantino, il regista decide di salvare il suo sogno idilliaco della vecchia Hollywood e dunque il Cinema stesso, lottando contro la tragedia dei fatti di cronaca nera di quegli anni per salvare l’innocenza, la solarità e la bontà di Sharon Tate, che incarna a tutti gli effetti l’amore per un Cinema e una società passata che ormai non ritorneranno più.

C’era una volta a…Hollywood dimostra come la potenza cinematografica possa raccontare un artista e riscrivere la Storia, dove mondi, personaggi, vicende possono esistere e vivere di vita propria, diventando immortali nell’immaginario collettivo e stimolando gli spettatori a valorizzare le proprie azioni quotidiane nella vita, perché ognuna di esse ha il potenziale di fare parte di una grande storia e di non finire dunque nel dimenticatoio della noia esistenziale.
Personalmente la psicanalisi intimista e sentimentalista di Quentin Tarantino verso la sua giovinezza ed esperienza cinefila l’ho trovata coraggiosa e seducente, ma allo stesso tempo il suo essere così esplicito nel suo narcisismo estetico e creativo non ha incontrato completamente la mia soggettività in fatto di narrativa e gusti tematici.

C’era una volta a…Hollywood rimane comunque una favola introspettiva ed avvincente che esprime tutto il suo amore per un certo tipo di Cinema che ha formato un artista, che all’ormai epilogo della sua lunga carriera sente il bisogno di uno stacco riflessivo e trasparente per metabolizzare la sua esperienza cinematografica. Forse non raggiungerà più il perfezionismo stilistico e tecnico di The Hateful Eight, ma sicuramente saprà offrire a sé stesso e al suo pubblico un’opera cinematografica degna di essere analizzata e ricordata per sempre nella storia del Cinema.

Voto 8

Joker (2019) di Todd Phillips

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Il Joker ha avuto tante trasposizioni al Cinema e ogni singolo attore che l’ha interpretato si è approcciato diversamente alla sua controparte fumettistica, mantenendo però la sua folle filosofia di fondo.
Jack Nicholson rappresentava la parte più gangster del personaggio, Heath Ledger la parte più anarchica, Jared Leto…vabbè lasciamo perdere, ed infine Joaquin Phoenix, attore poliedrico e trasformista molto abile ad interpretare i suoi innumerevoli ruoli complessi, ha ora il compito non solo di reinterpretare diversamente il personaggio rispetto ai suoi colleghi, ma di reggere un film intero dedicato al noto pagliaccio principe del crimine.

La notizia di un standalone dedicato al Joker non mi aveva entusiasmato all’inizio visto che trovavo inutile realizzare un film sul villain senza la presenza di Batman, che a mio avviso è essenziale per rappresentare il noto dualismo filosofico tra le due nemesi, dove il contrasto tra giustizia e caos è ciò che rende estremamente interessante il loro confronto.
Un’altro aspetto a sfavore di questa controversa operazione cinematografica è anche il fatto che il Joker non ha delle vere e proprie origini in quanto lui stesso ammette che preferisce avere più opzioni possibili sulla sua genesi. L’ambiguità e il mistero sulla sua nascita sono proprio i fattori che rendono il supercriminale ancora più inquietante e schizzato nella sua folle visione anarchica distruttiva riguardo la vita, dove quest’ultima per lui è soltanto una barzelletta, di conseguenza gli atti più irrazionali e barbarici che lui commette sono in realtà una forma d’arte per esprimere il suo sadico ed egocentrico divertimento.
La potenziale banalizzazione di questa sua affascinante filosofia poteva benissimo incorrere in questa pellicola che però, dopo aver vinto il Leone d’oro alla 76ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia ed imposto una controversa campagna di marketing per discostare il film dai semplici cinecomics ed accostandolo di più ad un Cinema d’autore più impegnato, ha suscitato in me un forte interesse nel visionare questo lungometraggio, che a conti fatti dimostra di avere i suoi attributi ma anche i suoi limiti.

Questa mia affermazione è riconducibile al regista del film Todd Phillips, che figlio di un imprinting scorsesiano e di una componente comica spinta che deriva dalla sua trilogia “una notte da leoni”, decide di confezionare un prodotto più cupo e lontano dai canoni cinefumettistici, trasponendo la mitologia del Joker in un contesto più realistico e vicino alla nostra quotidianità.
La ricerca di una cifra stilistica autoriale ed esteticamente simile a quella gangster urbana di Martin Scorsese, pecca alcune volte in un manierismo, in una ridondanza e in un didascalismo di chi vuole imitare un maestro senza riuscirci, ma che è sintomo anche di una regia funzionale ad un pubblico generalista che è il principale target di riferimento del cinecomic.
La collocazione del lungometraggio di Todd Phillips tra film d’autore e film commerciale è quindi alquanto dubbiosa, perchè Joker non si colloca né nella fantasiosa profondità cinefumettistica di Nolan o di Raimi o di Del Toro né all’epica caciarona degli Avengers, ma rappresenta comunque un unicum nella storia del cinefumetto non solo per aver vinto un premio prestigioso ad un festival cinematografico riservato a pellicole più “artistiche”, ma anche per aver trattato con estremo realismo tematiche molto vicine alla nostra contemporaneità, che alienano completamente la natura cinefumettistica del Joker, rendendo dunque la pellicola completamente avulsa dal contesto supereroistico se non per qualche riferimento sporadico per ammiccare ai fan del personaggio.
La peculiarità del film quindi verte soprattutto sui parallelismi con la nostra quotidianità, tant’è che la pellicola non si esime nel lanciare certe critiche sociopolitiche che mai si erano viste in un normale cinecomics, o almeno non così marcate.

La trama narra la vita di Arthur Fleck, un uomo single alienato dalla società che vive ancora con sua madre nei bassifondi di una Gotham City degli anni ’80 ormai corrotta e decadente. La sua vita da emarginato non gli da la possibilità di emergere come comico affermato come spesso vede nei late show del suo idolo cabarettista Murray Franklin, ed è dunque costretto a lavorare come clown per un’agenzia di spettacolo dove spesso viene deriso e picchiato dai teppisti della strada. Il suo malessere si traduce sia fisicamente con un corpo rachitico chiaramente malnutrito sia psicologicamente con una depressione costante ed un raro disturbo mentale che gli provoca delle improvvise risate in momenti di tensione o tristi.
La sua condizione degradante non viene di certo risollevata dalla madre assente che scrive continuamente lettere a Thomas Wayne per aiuti famigliari perché in passato era dipendente della sua azienda, e neppure la psicologa dell’assistenza sociale sembra realmente capace di aiutare Arthur, che si limita a prescrivere farmaci e chiedergli domande scontate che non portano a nessun progresso alla cura della sua ormai compromessa psiche.
Il definitivo crollo psicologico di Arthur Fleck avviene sul luogo di lavoro quando per sbaglio gli cade una pistola prestata segretamente da un suo collega per difendersi dai teppisti della strada, che lo porta inevitabilmente al licenziamento sotto lo sguardo omertoso e divertito dei suoi ex colleghi.
Deluso ed amareggiato delle sue continue disavventure, sulla via del ritorno in metropolitana si imbatte in tre dipendenti della Wayne Enterprises intenti a molestare una ragazza, che però vengono distratti dalla risata isterica incontrollabile di Arthur che in realtà esprime disagio e frustrazione. I tre molestatori però non comprendono la patologia del protagonista e cominciano a picchiarlo in quanto problematico e fenomeno da baraccone. Il pestaggio però prende una piega inaspettata quando Arthur comincia a difendersi sparando ai due molestatori e ferendo il terzo, che dopo una straziante e lunga fuga viene ammazzato a sangue freddo da Arthur Fleck, che scioccato dalle sue terribili azioni comincia a danzare in un bagno pubblico ripensando ai suoi omicidi, facendo intuire a noi spettatori che ormai l’inizio della discesa nella follia del Joker non ha più freni e che prima o poi una volta raggiunto il baratro della razionalità, riemergerà un nuova personalità in grado di affrontare il mondo esterno senza paura e preoccupazioni.

La riflessione che fa Todd Phillips sul Joker non è dunque una banale messa in scena di un villain già maturo che compie atti criminali efferati senza nessun controllo, ma si concentra ad indagare sulle possibili cause che potrebbero portare un uomo ad un cedimento strutturale completo della sua psiche. La lettura autoriale che vuole offrire al suo pubblico è una lenta narrazione introspettiva volta a sviscerare il subconscio di un uomo, e di come sia fattori endogeni che esogeni possano portare un individuo così triste e fragile mentalmente ad una condizione di assoluta iperviolenza e follia distruttiva.

L’instabilità psicologica di Arthur Fleck si riflette perfettamente nella realtà sociologica corrotta ed opprimente di Gotham, che viene rappresentata come una città piena di sporcizia, corrotta dalle ingiustizie sociali, saturata dal lavoro precario dovuto al taglio della spesa pubblica e dunque un welfare state ai minimi storici che inevitabilmente fomenta un ceto medio rancoroso verso le istituzioni.
Questa frattura societaria si riflette anche nella realtà domestica di Arthur Fleck, che essendo vittima di un sistema che da sempre lo sopprime, vive nella precarietà ma coltivando un sogno nel cassetto che è diventare un comico cabarettista come il suo idolo paterno Murray Franklin. Un sogno nato da una vita costantemente attaccata alla televisione, che filtra la realtà grazie al mondo dello spettacolo e dalle false promesse dei politicanti di Gotham, tra cui spicca in particolar modo il magnate Thomas Wayne, che strumentalizza il malcontento popolare e gli omicidi di Arthur per guadagnare consensi per una comoda poltrona come sindaco della città di Gotham.
Il late show di Murray Franklin e la dubbia paternità di Thomas Wayne rappresentano gli ulteriori punti di rottura che porteranno il protagonista a smascherare l’ipocrisia della città e gettare quest’ultima nel caos.
Il late show mostra quanto il suo mondo sia una realtà predatrice che ricerca casi umani per deriderli e metterli nella gogna mediatica per guadagnare ascolti, proprio come ha fatto con il problematico stand up comedy di Arthur Fleck. La stessa figura paterna idilliaca di Murray Franklin creata da Arthur viene distrutta dall’ipocrisia del suo stesso idolo, che si dimostra un uomo senza scrupoli a sfruttare la sua presenza in studio per burlarsi di lui.
Dall’altra parte la rivelazione di un rapporto extraconiugale tra la madre di Arthur e Thomas Wayne rappresenta una crisi esistenziale che mette in dubbio le sue origini e dunque anche una possibilità di riconcilazione con una figura paterna, che però si dimostra fredda e negazionista riguardo ad un possibile figlio, lasciando dunque il quesito della sua esistenza in mano a dei documenti che certificano la sua adozione.
Il sommarsi delle disgrazie e la distruzione di ogni certezza della propria esistenza, porta lo stesso protagonista a rinunciare alle cure dell’assistenza sociale (quest’ultima costretta a chiudere per via dei tagli alla spesa pubblica) che lo portano ad immaginarsi persino una relazione amorosa con la sua vicina di casa, che una volta rinsavito porta anche quest’ultima allucinazione al completo crollo psicofisico di Arthur Fleck e all’emergere della follia del Joker, che forse era sempre stata contenuta dalle dolorose risate sintomo di tristezza e frustrazione.

Todd Phillips dipinge perfettamente l’evolversi degli eventi attraverso una regia intimista e a volte didascalica e ridondante per rimarcare la tragicomica vita di un uomo che al capolinea della sua razionalità, decide di abbracciare un destino incerto ma sicuramente molto più vivo e sincero di quello del suo alter ego Arthur Fleck, che ha tentato in tutti i modi di farsi notare nella società per ottenere un minimo di attenzione. La spirale di violenza che travolge il personaggio è semplicemente sublime e per nulla invadente nella messa in scena, ed è funzionale a rappresentare l’umore sempre più schizzato ed imprevedibile della nuova personalità, conscia quest’ultima di aver capito che la vita è soltanto una semplice barzelletta.
Il Joker che emerge alla fine del film è un individuo danzante e pieno di gloria, che dopo aver eliminato letteralmente tutto ciò che poteva ricondurre alla sua vecchia vita, ora è pronto ad essere acclamato con estremo entusiasmo da un vero pubblico ossia i rivoltosi vestiti da clown ispirati dal suo omicidio dei tre broker della Wayne Enterprises, gesto interpretato dal movimento rivoltoso come l’inizio di una rivoluzione contro l’establishment corrotto di Gotham.
Un populismo e un malessere sociale che potrebbe essere interpretato erroneamente come una glorificazione della figura del Joker come paladino della libertà e della giustizia sociale, quando in realtà il regista illustra chiaramente come il Joker in realtà sia estremamente disinteressato dalla retorica politica ma compiaciuto dell’ondata di caos e di violenza che ha messo a ferro e fuoco la città. La strumentalizzazione della riottosità del popolo è quindi soltanto uno dei tanti strumenti di paura e crudeltà che il pagliaccio principe del crimine attua per seminare anarchia nel suo nuovo mondo, ma il noto villain è anch’esso un prodotto di quella società malata. È quindi palese che siamo noi che creiamo i nostri stessi mostri, e che prima di combatterli bisogna innanzitutto comprenderli risalendo alla radice del loro disagio.
La complessità della problematica sociologica va ben oltre la percezione della realtà del Joker, che all’epilogo della pellicola dimostra una totale alienazione dalla razionalità e che ormai lui stesso è totalmente in balia della sua folle visione anarchica, tant’è che forse gli eventi stessi del film sono frutto di una sua fervida immaginazione.

Todd Phillips confeziona così un lungometraggio degno di essere analizzato e visionato con la giusta attenzione anche da un pubblico generalmente restio a vedere i cinecomics, inoltre la pellicola offre anche un arricchimento alla mitologia del Joker e della sua nemesi Batman, che all’interno della narrazione di questo film potrebbe uscirne come un guardiano dello status quo e dunque della conservazione reazionaria del potere, e non come il crociato incappucciato della giustizia che noi tanto amiamo credere.
Todd Phillips non crede nei supereroi perché ritiene che quest’ultimi semplificano eccessivamente la risoluzione di problematiche sociologiche molto più complesse e profonde di loro con delle semplici scazzottate. Il regista ha così deciso di offrire la sua interpretazione del Joker parlando perfettamente della nostra contemporaneità e ha avviato insieme alla Warner/DC un nuovo modello cinefumettistico in grado di competere con il colosso miliardario del Marvel Cinematic Universe in termini qualitativi e quantitativi. 
Dove la Sony fallisce nella sua narrazione antieroica di Venom, la Warner/DC invece guadagna terreno nella concorrenza narrando i suoi complessi villain, andando oltre il genere supereroistico per affrontare tematiche più mature e reali.
Forse Joker rappresenta una seconda possibilità per la DC di dimostrare le sue vere potenzialità, che non necessariamente devono passare per un universo condiviso, ma con standalone più autoriali capaci di entrare nelle grazie dei festival cinematografici più d’essai. E di conseguenza migliorare la competitività di prodotto nel filone dei cinecomics.

Seppur il film sia affetto da un’estetica scorsesiana derivativa e da un manierismo e didascalismo a volte insistente che allontana Todd Phillips dai grandi maestri del genere, il suo Joker rappresenta un unicum nella storia del cinefumetto. Come l’interpretazione magistrale di Joaquin Phoenix. Complimenti ai creativi e spero che la DC continui su questa strada.

Voto 8.5

Weathering with you (2019) di Makoto Shinkai

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Dopo l’acclamato successo mondiale di Your NameMakoto Shinkai ritorna al Cinema con un nuovo film romantico intitolato Weathering With You, incentrato sulla storia d’amore tra due ragazzini separati dalla fatalità del potere della ragazza, che ha la capacità di schiarire il cielo e fermare la pioggia.

Il regista giapponese famoso per i suoi anime romantici e acclamato dalla critica come il nuovo maestro dell’animazione nipponica e degno erede di Miyazaki, incontra però non solo plausi sia da critica che da pubblico, ma anche critiche sulla sua banale retorica romantica e sul fatto di essere monotematico e schematico nel narrare le sue storie.
Difronte a queste opinioni contrastanti ho voluto prima analizzare tutta la sua filmografia prima di scrivere la mia recensione sul suo ultimo film, per verificare se effettivamente fossero veritiere le critiche al suo essere monotematico o se davvero mi trovassi di fronte ad un autore geniale capace di rivaleggiare con i più grandi maestri dell’animazione.

Dopo aver visionato tutti i suoi lungometraggi animati non posso che schierarmi dalla parte di coloro che criticano la ripetitività tematica e narrativa del regista nipponico, che seppur abbia sperimentato più generi nel raccontare le sue storie romantiche, rimane comunque ancorato ad uno schema narrativo piuttosto simile di pellicola in pellicola. L’unica eccezione è il film Viaggio ad Agartha, che si presenta inizialmente con un incipit velatamente romantico, per poi sfociare in un fantasy che parla di morte, solitudine, egoismo, paura, discriminazione e senso di colpa.
Nonostante la ripetitività dei suoi stilemi, Makoto Shinkai riesce comunque a trasmettere un sentimentalismo mai scontato tra i due innamorati al centro della narrazione, che funziona per la maggior parte quando la trama decide di uscire dal classico concept del dramma romantico per contaminarsi con altri generi come la fantascienza nel caso di Oltre le nuvole, il luogo promessoci oppure come il fantasy nel caso di Your Name.
Con quest’ultimo film il regista raggiunge la vetta più alta nella sua carriera perché seppur rimanga legato ai suoi classici cliché narrativi, riesce inaspettatamente a creare una storia romantica intima e spirituale grazie al forte legame tra i due protagonisti, che immersi in una commistione di generi tra cui il fantasy, il giallo e la commedia, donano un ritmo sempre differente ai 3 atti del film, che si conclude con un finale commovente e catartico grazie alla sapiente costruzione del pathos nel corso della pellicola.

Dopo la visione di Your Name mi aspettavo quindi un altro anime di una simile portata in termini di equilibrio, freschezza, emozioni, pathos e sentimentalismo, visto che personalmente mi aveva colpito molto perché rappresentava per certi versi la mia stessa autobiografia romantica.

Il risultato di Weathering With You ovviamente non ha raggiunto i livelli tanto sperati dal mio stesso giudizio offuscato da un film precedente che comunque aveva i suoi difetti, ma dimostra come Makoto Shinaki ormai si sia adagiato nella sua poetica e nei suoi stilemi commerciali che ormai sembrano funzionare dopo il grande successo di pubblico ottenuto con Your Name.

La storia che comunque decide di raccontare il regista nipponico presenta degli interessanti spunti di riflessione come la centralità di Tokyo e del suo microverso composto da milioni di persone alla ricerca di uno scopo nella grande metropoli. I vari personaggi sia primari che secondari rappresentano infatti le varie anime della città, dove ognuna di loro cerca di sbarcare il lunario per una necessità di riscatto personale o per mirare ad un’ambizione professionale. La precarietà e le difficoltà della vita urbana trovano un parallelismo con l’eterna pioggia che sembra avvolgere la città, dandole un’aria grigia, sporca, triste, soffocante, quasi alienante per gli stessi abitanti che vi ci abitano.
Una risposta a questa quotidianità frenetica e stressante, la si trova nella protagonista del film Hina, che grazie al suo potere di schiarire il cielo e di fermare la pioggia riesce a donare gioia e vitalità ai vari personaggi del film, soprattutto nei riguardi del protagonista fuggiasco Hodaka, che col passare del tempo si innamora sempre di più della sua nuova amica.
L’ecosistema che si viene a creare grazie alla positività e alla serenità di questo potere è una metafora chiaramente voluta dal regista per enfatizzare l’importanza delle piccole azioni quotidiane date dall’amicizia, dall’amore, dalla collettività, dalla solidarietà e dal divertimento, che sembrano ormai valori quasi del tutto scomparsi sotto le costanti piogge torrenziali che simboleggiano l’apatia e il peso di un’esistenza sempre più grigia e triste per gli abitanti di Tokyo.

Il prezzo di questo potere, ovvero la felicità, costa a Hina la sua stessa esistenza in quanto il suo stesso dono è legato ad un tragico destino della mitologia Shintoista. L’esoterismo e la componente fantasy del film mostra come la costante pioggia sia in realtà parte di un mondo fantastico popolato da varie creature composte da acqua che vagano attraverso le enormi nubi sopra la città di Tokyo, ma l’affascinante macrocosmo di questo ambiente fantastico viene sacrificato a favore dell’egoismo dell’amore, che nonostante sia giustificato dall’infelicità del protagonista, porta inevitabilmente la metropoli a ritrovarsi sommersa d’acqua per la maggior parte della sua superficie.

La scelta drammaturgica che Makoto Shinkai decide di riservare per il finale di Weathering With You serve a rafforzare la componente romantica e speranzosa del protagonista, che fuggendo da un mondo di responsabilità, vuole decidere di vivere una vita umile ma felice inseguendo il sogno dell’amore e della felicità eterna. Una scelta egoistica e irrazionale che condanna l’esistenza della stessa metropoli in cui voleva vivere e costruirsi un proprio futuro, che personalmente non mi ha fatto impazzire.
In antitesi a questa scelta autoriale ho trovato molto più saggia e nobile la scelta drammaturgica di Your Name, dove l’amore tra due persone (dunque un rapporto egoistico) salva un’intera città dalla distruzione da parte di una cometa, permettendo quindi a migliaia di cittadini di rifarsi una nuova vita altrove.

Insomma, Weathering With You presenta pregi e difetti che rispecchiano perfettamente la filmografia conservatrice di Makoto Shinkai, che conscio di aver finalmente raggiunto i suoi stilemi definitivi, ha optato per una narrazione spettacolare visivamente, ma che da un punto di vista narrativo sembra voglia rincorrere uno schema predefinito che mira principalmente ad un pubblico sempre più adolescenziale.
Romanticismo e profondità sacrificati per una spettacolarizzazione animata sempre più sofisticata, che comunque messa a confronto con i contemporanei film romantici live action, li batte su tutti i fronti.

Voto 7

PS: Geniali i cameo dei protagonisti di Your Name, che per assurdo, dopo aver salvato una città dall’impatto di una cometa, ora si ritrovano in una Tokyo metà sommersa per colpa di due adolescenti innamorati.

Doctor Sleep (2019) di Mike Flanagan

immagine della recensione su doctor sleep

Ogni anno per Halloween sono sempre indeciso se vedermi un horror al Cinema o se vedermelo in casa sotto le coperte sul mio bel televisore casalingo. L’anno scorso avevo fatto entrambe le cose più o meno: il reboot di Halloween il 30 ottobre al Cinema e Funny Games in casa di amici per poi festeggiare il giorno successivo un bel compleanno. Sta a voi intuire quale sia stata la visione migliore.

Quest’anno invece, spinto dalla curiosità del progetto, ho deciso di dare una possibilità a Doctor Sleep, trasposizione del romanzo di Stephen King del 2013, nonché sequel ufficiale di The Shining.
Da questa trasposizione cinematografica però sorge spontanea una domanda: è il sequel del romanzo di King o è il seguito cinematografico del film di Kubrick?

L’eredità e l’importanza del capolavoro horror del grande cineasta americano ha indubbiamente influenzato enormemente l’immaginario collettivo del pubblico, tant’è che il suo film è diventato più iconico del romanzo stesso, provocando così le ire dello scrittore americano che aveva profondamente criticato tutte le modifiche attuate nell’opera cinematografica di Kubrick.
Discostarsi dalle atmosfere e dagli stilemi dello Shining cinematografico risulta dunque un’operazione ardua per il regista di Doctor Sleep, che diviso tra la fedeltà ortodossa di King e la potenza espressiva di Kubrick, decide di optare per entrambe le cose.
Il risultato ovviamente non può che essere insoddisfacente perchè da una parte una fedeltà letteraria dogmatica rischia che al Cinema spersonalizzi l’identità autoriale della pellicola, oltre che ad omettere un sacco di dettagli della controparte cartacea, dall’altra scimmiottare l’estetica e la potenza drammaturgica di un maestro del Cinema rischia di penalizzare la citazione stessa al capolavoro degli anni ’80, rendendo poi il prodotto finale ambiguo e privo di una vera sostanza.
Nonostante questi difetti, Mike Flanagan riesce comunque a trasporre modestamente il romanzo di King, grazie anche alla sua buona regia horror maturata da anni di esperienza nel genere sia nel campo cinematografico sia in quello televisivo.

La trama riprende la vita di Dan Torrance dopo 40 anni dalla fuga dall’Overlook Hotel, intento a cambiare la sua vita dopo anni e anni di traumi infantili dovuti dalla sua “luccicanza/shining” che lo portano a rifugiarsi nell’alcool e a condurre una vita solitaria e tormentata. Deciso a voler cambiare stile di vita, decide di cambiare città per trovarsi un nuovo appartamento e un lavoro onesto che lo possa distrarre dai suoi poteri e uscire dal vortice dell’alcolismo.
Dopo anni di riabilitazione scopre che nella sua stessa cittadina abita una ragazzina di nome Abra dotata dei suoi stessi poteri della luccicanza, che quest’ultima utilizza ingenuamente per parlare con fantasmi fino ad intercettare il Vero Nodo, una setta millenaria di fantasmi in carne ad ossa che sopravvive grazie all’assorbimento della luccicanza dentro le persone, fonte della loro longevità e permanenza nella dimensione terrena.
Il coinvolgimento della bambina nelle vicende della setta costringe Dan Torrance ad aiutarla e dunque a ritornare ad affrontare i suoi demoni interiori quali gli effetti collaterali della luccicanza e il ritorno all’Overlook Hotel, quest’ultimo fonte dei suoi traumi infantili per via dell’orribile morte di suo padre causata dai fantasmi malvagi che vi ci abitano.

Nonostante i difetti del mix tra fedeltà letteraria e omaggi cinematografici, la soluzione che offre il regista Mike Flanagan per la trasposizione di Doctor Sleep è la creazione di un vero e proprio horror fantasy.
La regia risulta chiara e maestosa nel rappresentare i momenti di confronto tra Dan, Abra e il Vero Nodo, che tra rituali sanguinolenti e battaglie psichiche, illustra perfettamente la dimensione lugubre e tetra di un mondo composto da prede e predatori, in nome di una luccicanza che consuma gli stessi personaggi che la posseggono e che la bramano.
Il rapporto quasi fraterno che si instaura tra Dan e Abra rimane il tema centrale ma soprattutto l’elemento fondante di questa pellicola, che riesce perfettamente a rappresentare l’unicità ma anche la solitudine che comporta nel possedere il dono della luccicanza. L’ingegno e la comune empatia di questa benedizione/maledizione crea un legame unico tra i due protagonisti, che davanti alla prepotenza del Vero Nodo si vedono costretti ad affrontare il male puro con ogni mezzo possibile, che porta inevitabilmente alla morte dei loro cari e amici.

La perfetta chimica tra i due protagonisti non la si può però riscontrare negli altri personaggi della pellicola, in particolare nella caratterizzazione dei membri della setta del Vero Nodo, che risultano banali, frivoli, ridicoli e privi di una vera e propria presenza sia estetica sia caratteriale tale da rappresentare una vera minaccia all’interno della narrazione del film. La mancanza di tensione e di una vera componente orrorifica come invece era presente nello Shining cinematografico, è dovuto dal fatto che il genere horror fantasy sfocia spesso in una serie di sequenze d’azione che stemperano la tensione e la suspance orrorifica della messa in scena. Lo scontro sia psicologico che fisico tra protagonisti ed antagonisti inoltre, ricorda molto una lotta tra supereroi con tinte mutanti tale da rendere la storia totalmente avulsa dallo spaventoso magnetismo del capolavoro di Kubrick.
Per paradosso i momenti più affascinanti ed emblematici della pellicola sono le citazioni allo stesso Shining dove sfociano completamente nel terzo atto del film quando Dan e Abra decidono di affrontare il leader del Vero Nodo nell’Overlook Hotel, servendosi in questo modo dei fantasmi intrappolati nella mente Dan Torrance.

In sostanza Mike Flanagan confeziona un fantasy horror gradevole che traspone basilarmente la mitologia del romanzo, ma che paga il debito di venire paragonato inevitabilmente allo Shining cinematografico del grande Stanley Kubrick. Seppur differente sia per tematiche che per ambientazioni, Doctor Sleep rappresenta comunque un’opera inferiore non solo per le derivazioni estetiche col suo obbligato predecessore cinematografico, ma soffre di una narrazione diluita e di un minutaggio eccessivamente dilatato che non spaventa e che offre pochi spunti di riflessione.

Come sempre è l’originalità a premiare il successo di un’opera d’arte rispetto ad una banale esecuzione di un materiale già preesistente. E come la Storia del Cinema insegna, solo i più grandi registi sono in grado di reinterpretare un materiale già consolodato per poi ricrearlo secondo i loro stilemi e la loro poetica, trascendendo l’opera originale fino a creare un prodotto unico ed irripetibile.

Voto 7-

PS: Curioso l’inserimento del caratterista Carel Struycken, che si presta ad interpretare il membro più anziano del Vero Nodo, anche se per me rimarrà sempre l’amato spirito del Gigante di Twin Peaks.

The Irishman (2019) di Martin Scorsese

immagine della recensione su the irishman

3h50min.

Questa è stata la durata delle visione in sala di The Irishman, l’ultima fatica del maestro Martin Scorsese. Oltre al minutaggio di 3h30min del film, la Cineteca di Bologna ha proiettato anche un’intervista al regista di 20 minuti dove discuteva dei temi del suo lungometraggio e sul futuro della Settima Arte.
In sostanza, quasi 4 ore di puro Cinema dove lo storytelling diventa Arte, dove il genere gangster riaffiora ancora una volta per mostrare i suoi assi nella manica, dove il maestro dei biopic decide di coinvolgere 3 leggende della Nuova Hollywood per rispolverare la potenza cinematografica di quell’epoca, quando i registi avevano carta bianca dai produttori per creare i loro film pregni di messaggi sociopolitici ed intrisi da un’incredibile avanguardia tecnica e drammaturgica.
Un passato che sembra ormai sempre più lontano dai tempi odierni, dove ormai gli studios puntano quasi esclusivamente a pellicole legate ad una mera operazione di marketing più che all’arricchimento dell’Arte cinematografica.

Di fronte a questo impoverimento del linguaggio cinematografico, Martin Scorsese critica aspramente questo fenomeno in quanto lui stesso è privato della libertà creativa nel poter realizzare film più autoriali e meno commerciali, soprattutto dopo il fallimento del suo penultimo lungometraggio storico-teologico Silence incentrato sul viaggio di 2 gesuiti portoghesi nel Giappone feudale del XVII secolo.
Il flop del suo penultimo film non lo ferma però dall’idea di dirigere un gangster movie vecchio stile incentrato su una biografia offertagli dal suo amico attore Robert De Niro insieme ad Al Pacino (per la prima volta in un film di Scorsese) e a Joe Pesci (ritiratosi da Hollywood da ormai 20 anni per intraprendere una carriera musicale).
Il trittico di leggende che riunisce il regista italoamericano incontra però il problema dell’invecchiamento visto che la biografia dovrebbe coprire un periodo storico di quasi 50 anni, ed investire in un cast giovane non rientra di certo nelle intenzioni del regista, oltre che a lievitare notevolmente il consistente budget di ormai 100 milioni di dollari. La travagliata produzione del film ha dunque un grande problema nella gestione del corpo attoriale e dei suoi relativi costi, che portano la Paramount ad abbandonare il progetto.
Martin Scorsese ritrovandosi senza finanziamenti e senza grandi studios a Hollywood disposti a spendere milioni per realizzare la sua opera cinematografica, trova in Netflix la salvezza, dove quest’ultima non solo accetta di produrre il film, ma anche di occuparsi nello sviluppo di effetti speciali sofisticati per il ringiovanimento degli attori, in modo da conservare le loro magistrali interpretazioni e renderli artificialmente in giovane età come i personaggi descritti nella biografia di The Irishman.

La totale libertà creativa consentita da Netflix permette inoltre a Martin Scorsese di eccedere nel minutaggio e dunque di infarcire secondo i suoi voleri la sua mastodontica opera cinematografica gangsteriana. L’unica pecca al libero arbitrio del regista è la dura politica sulla distribuzione in sala della nota multinazionale on demand americana, che impone ai vari esercenti del mondo una durata massima limitatissima del suo prodotto in quanto quest’ultimo destinato successivamente alla completa distribuzione in streaming per gli abbonati, che sono ovviamente i principali finanziatori di Netflix.
Un’arma a doppio taglio per chi vuole produrre un progetto cinematografico ambizioso, visto che il mercato di riferimento di Netflix non è il Cinema, ma bensì i clienti abbonati che pagano fior di quattrini mensilmente per vedere un catalogo virtuale sempre più fornito di film e serie tv.

Nonostante la dubbia morale della multinazionale che cavalca il declino della Sala in favore della comoda visione casalinga che svaluta notevolmente l’esperienza unica di una visione al Cinema, affidarsi alle produzioni Netflix sembra ormai l’unico appiglio con cui i grandi autori possano realizzare i loro film più sperimentali, come nel caso dei fratelli Coen, di Alfonso Cuaron, di Andrew Niccol e di Duncan Jones.
Un compromesso purtroppo amaro da accettare, che però son riuscito ad evitare grazie alla distribuzione speciale della Cineteca di Bologna, nota per il suo cinema d’essai sempre prolifico di restauri di pellicole del passato. Approfittando così della generosa offerta locale, sono riuscito a godermi in sala tutta la potenza visiva e drammaturgica di The Irishman, che rifacendosi ormai ad un genere rétro (gangster), riesce lo stesso ad affascinare il suo pubblico grazie all’immensa cinematografia di Martin Scorsese, che ancora una volta ci regala l’ennesimo capolavoro smentendo il mio pregiudizio sul didascalismo dei film biografici.

La trama si basa sulla biografia di Frank Sheeran, sicario irlandese della famiglia criminale Bufalino che sfruttando le sue capacità da killer grazie alla sua esperienza acquisita durante la Seconda Guerra Mondiale, servì da ponte di collegamento tra Mafia e Sindacati in particolare quello di Jimmy Hoffa, sindacalista corrotto e amico di Frank che misteriosamente scomparve nel 1975, molto probabilmente per mano di quest’ultimo.
Martin Scorsese avendo un materiale così vasto da trattare per raccontare tutta la controversa vita di quest’uomo, decide di dividere il film in 4 atti, che corrispondono a grosso modo ogni singolo periodo storico della lunga vita di Frank Sheeran, dove quest’ultimo ormai prossimo alla morte in una casa di riposo, riflette attraverso vari flashback sulle vicende e gli eventi che l’hanno portato a diventare un efferato e freddo sicario della mafia.

Nel primo atto ambientato negli anni ’50 vediamo un giovane Frank intento a lavorare come camionista per sbarcare il lunario e che per arrotondare il suo magro stipendio vende parte del suo carico ai mafiosi locali della Pennsylvania. Col passare degli anni viene beccato dalle forze dell’ordine che lo portano ad un duro processo, che però vince grazie alla professionalità dell’avvocato Bill Bufalino, cugino del noto boss del north-west della Pennsylvania Russell Bufalino.
Dopo vari fortuiti incontri e screzi con la mafia locale, il noto boss della famiglia Bufalino decide di portare sotto la sua ala protettiva Frank Sheeran, notando le sue eccezionali abilità militari e la sua discrezione nell’eseguire gli ordini assegnatoli. L’inizio di questo rapporto paterno si traduce in un sodalizio efficace sia per l’organizzazione mafiosa che accresce in questo modo il suo potere grazie all’efficienza del sicario irlandese sia per il signor Sheeran che vede la sua situazione economica migliorare, tanto da divorziare con sua moglie iniziando così una vita piena di vizi e virtù.

Nel secondo atto ambientato negli anni ’60 Frank viene messo in contatto con il famoso sindacalista Jimmy Hoffa, noto per il suo carisma agguerrito che gli consente delle eccellenti capacità oratorie tanto da influenzare facilmente il suo enorme bacino di lavoratori, rendendo il suo sindacato uno dei più grandi e potenti d’America.
Il potere e l’influenza che Hoffa ottiene vengono però alimentati anche grazie alle sue connessioni con le cosche mafiose, dove Frank si offre da buon tramite per eseguire i più sporchi lavori nell’abbattere i concorrenti del sindacato di Hoffa come grandi aziende, sindacati rivali e lo stesso governo Kennedy, quest’ultimo intenzionato a sradicare con una consistente campagna anticorruzione le infiltrazioni mafiose nei sindacati, tra cui quello di Jimmy Hoffa.
Se con Russell Bufalino Frank ha un rapporto paterno, con Jimmy Hoffa ne instaura uno fraterno che da inizio ad una solida amicizia e proficua collaborazione professionale tant’è che lo stesso Frank diventa presidente di un reparto del sindacato di Hoffa.
Nonostante il rapporto simbiotico ma anche conflittuale con la mafia, Jimmy Hoffa viene arrestato per corruzione nel 1964 dall’Attorney General Robert Kennedy, fratello del noto presidente assassinato un anno prima, che lo condanna a 13 anni di prigionia. L’incarcerazione oltre a fargli perdere la carica da presidente del suo sindacato, gli fa perdere anche tutta l’influenza guadagnata negli anni grazie ai mafiosi, deteriorando tutti i rapporti che aveva con quest’ultimi, ma conservando comunque una buona amicizia con Frank, ormai l’unico ponte di collegamento con le più grandi cosche mafiose dei nord-ovest degli Stati Uniti.

Nel terzo atto ambientato negli anni ’70 si esplorano gli ultimi anni di Jimmy Hoffa durante la scarcerazione anticipata grazie ad un atto di perdono di Richard Nixon, che però gli proibisce di riottenere la sua carica da presidente del sindacato fino al 1980. La rabbia e il temperamento da testa calda di Hoffa lo portano comunque a tentare la scalata al potere sfidando i sindacalisti protetti dalla mafia, ed ad insultare la malavita che per anni lo aveva aiutato ad avanzare nella sua carriera. L’orgoglio e la fervente personalità di Hoffa infastidisce i vari boss di Cosa Nostra che rifiutano di accettare la sfida lanciata da quest’ultimo, in quanto ormai fuori dai giochi e dagli intrighi di potere che tanto lo avevano reso celebre nei decenni precedenti all’incarcerazione.
Per placare la furia e la testardaggine dell’ex sindacalista subentra Frank che, diviso tra professionalità e amicizia, tenta in ogni modo di convincere il suo amico ad accettare la sconfitta e di godersi con la sua famiglia la pensione che gli resta. Lo scontro ideologico e utilitaristico che ne esce, porta inevitabilmente alla morte di Jimmy Hoffa che, dopo essersi convinto di aver finalmente raggiunto un compromesso con la mafia, viene freddato a tradimento dal suo amico Frank, ormai impotente davanti agli ordini dei suoi capi.

Nel quarto ed ultimo atto ambientato negli anni ’80 e ’90 vediamo infine l’incarcerazione di Frank per corruzione insieme a tutte le cosche mafiose infiltrate nel sindacato di Hoffa, che anno dopo anno cominciano a morire tra cui il suo capo e i suoi collaboratori che hanno inevitabilmente definito il suo destino. Rimasto solo con una famiglia che lo disconosce per gli atti atroci commessi in passato ed un’artrite che gli consente di uscire di prigione per trascorrere i suoi ultimi giorni di vita in una casa di riposo, questo lo riporta ai sensi di colpa della narrazione presente, che neppure il suo prete di fiducia potrà confortarlo nei suoi più grandi rimpianti e dolori della vita.

E’ incredibile come Martin Scorsese riesca dopo decenni e decenni di carriera ancora a far funzionare la vecchia formula dei gangster movie alla veneranda età di 77 anni. Merito non solo della sua immensa cinematografia maturata già ai tempi della Nuova Hollywood, ma perché riesce a mescolare i classici stilemi del genere citando il suo stesso Cinema come Quei Bravi Ragazzi e Casinò insieme ad una poetica nostalgica e riflessiva sia sul genere che su sé stesso come l’ultimo film di Sergio Leone C’era una volta in America oppure se vogliamo prendere esempi più recenti, il C’era una volta a…Hollywood di Quentin Tarantino che rimembra il glorioso Cinema classico degli anni ‘60.
La componente nostalgica e metacinematografica non sono però gli unici elementi che definiscono la bellezza di The Irishman, ma è la poetica di Scorsese che prevale sulla storia raccontata, che è infatti il criterio fondamentale per distinguere la vera autorialità di un regista che piega il genere cinematografico a suo favore per raccontare sé stesso, per parlare intimamente con lo spettatore, per far riflettere le masse mettendo in discussione i loro gusti, le loro convinzioni, la loro storia, le loro abitudini, la loro vita.
L’autobiografia mascherata che ne esce da The Irishman rappresenta chiaramente l’intero Cinema di Martin Scorsese, che ama indagare sulle biografie di personaggi controversi per psicanalizzarli nella loro sfera emotiva, nelle loro azioni all’interno del loro microcosmo, portando alla luce le loro vicende per poi esplorare la propria interiorità come uomo e come cineasta. Un esempio lampante è la riflessione teologica sulla fede cristiana e shintoista in Silence che da sempre dilania la spiritualità del regista agnostico. Ed è interessante come porti avanti questa sua riflessione anche nella sua ultima fatica cinematografica.
Il protagonista Frank Sheeran, un uomo anziano e abbandonato a sé stesso che riflette sugli eventi che hanno definito la sua vita, è una chiara similitudine alla riflessione che lo stesso Martin Scorsese fa sulla sua lunga carriera, che conscio di essere giunto al capolinea di un’era cinematografica, decide di riflettere sulla storia della propria nazione, sulla crudeltà del potere, sulla propria identità italoamericana che l’ha definito come artista, sulla mortalità della vecchiaia, sulla moralità del perdono di Dio ed infine sul suo spaesamento nel nuovo Cinema contemporaneo.

La riflessione drammaturgica sui rapporti umani che definiscono la nostra individualità e nell’essere un membro fondante di una società, viene rappresentato perfettamente dal dramma interiore di Frank Sheeran che diviso dalla paternità di Russell Bufalino e dalla fratellanza con Jimmy Hoffa, si vede costretto ad inseguire la strada della lealtà, delle amicizie politiche, dell’omertà e del servilismo a discapito dell’amore, della verità, dell’orgoglio e dell’onestà.
Il tradimento e l’uccisione di Jimmy Hoffa rappresenta l’ultimo passo per essere pienamente accettato dal potere, dove quest’ultimo sacrifica volentieri la carne da macello in nome dello status quo, non curandosi della Storia, degli ideali e di tutte le famiglie legate agli agnelli sacrificali.
La freddezza e l’ignavia di Frank Sheeran a questi schemi criminali si riflette soprattutto sul distacco delle sue figlie, che davanti al silenzio glaciale del padre agli atti atroci da lui commessi, non riescono a comprendere la sua protezione e dunque recidono i rapporti con lui per non subire la sua ennesima bugia e trascuratezza.
Lo scorrere del tempo è un altro tema caro a Scorsese che come Frank Sheeran si interroga se veramente ha fatto parte della Storia o se è stato semplicemente uno dei tanti ingranaggi nello svolgersi degli eventi. Una vita quasi all’ombra dei più grandi eventi storici che hanno definito la storia del suo paese, che sembrano scivolare via come gocce di pioggia sul finestrino di un’auto dal momento che l’estrema diligenza nella sua professione assorbiva completamente l’attenzione del più grande sicario della mafia. L’assassinio del presidente Kennedy, il fallito colpo di stato a Fidel Castro, la crisi dei missili a Cuba, lo scandalo Watergate, i bombardamenti NATO in Yugoslavia, sono tutti visti dal protagonista attraverso radio, televisioni, cartelloni che il regista sapientemente inserisce nel minutaggio del film per rimarcare l’indifferenza e l’inconsapevolezza di Frank agli eventi esterni, così come tutti i giorni noi assistiamo ad una prospettiva filtrata della realtà che ci circonda a causa dei vari mass media che definiscono la nostra percezione del mondo.

La condensazione di tutte queste tematiche così sapientemente costruite nei quattro atti del film non pesano minimamente insieme alla durata del lungometraggio, perché ancora una volta Scorsese ci regala una regia semplicemente maestosa, che riesce perfettamente a gestire ritmo, drammaturgia, potenza visiva e recitazione in un modo così naturale e genuino che lo stesso spettatore non può che rimanere folgorato ed immerso completamente nell’epopea gagsteriana da lui creata.
La ricostruzione storica, le scenografie, i costumi, le scene d’azione, la violenza e i piani sequenza sono gestiti magistralmente grazie ad un virtuosismo registico semplicemente straordinario per un settantasettenne, che ha ancora tutta la potenza drammaturgica della Nuova Hollywood che gli scorre nelle vene.
E per certificare che l’opera cinematografica non sia un esercizio di stile fine a sé stesso ma sorretta invece da una solida volontà autoriale di Martin Scorsese nel raccontare una storia per poi narrare sé stesso, il tutto va ricercato nella sopraffina gestione dei dialoghi, che alternati da tempi sia drammatici che comici, restituiscono una innaturale ilarità anche nei momenti più drammatici.
Il climax che il regista italoamericano costruisce sapientemente alla fine del terzo atto è uno dei momenti più alti della Storia del Cinema dove nel momento della massima tensione, ovvero della preparazione dell’uccisione di Jimmy Hoffa, i carnefici imbastiscono un dialogo al limite del grottesco che aliena completamente lo spettatore dalle vere vicende biografiche, dove la pellicola sembra quasi remare contro la Storia e far dubitare allo spettatore sul triste destino del noto sindacalista, per poi ripiombare inaspettatamente nella crudeltà del fatidico giorno del giudizio che spezza incredibilmente l’ilarità dei gangster, così tanto simpatici sullo schermo, ma così efferati nella vita reale.
Un perfetto esempio che conferma l’eccelsa cinematografia di Martin Scorsese, che andando oltre il didascalismo del genere biografico riesce magistralmente a trasformare la vivacità e la curiosità degli eventi reali in affascinanti ed irraggiungibili affreschi della Settima Arte anche per merito delle performance dei suoi attori.

Difatti ricollegandomi al discorso sull’incredibile gestione del cast stellare riunito da Scorsese, spiccano inevitabilmente le interpretazioni delle 3 leggende della Nuova Hollywood: Robert De Niro (Vito Corleone), Al Pacino (Michael Corleone, Tony Montana) e Joe Pesci (Tommy DeVito), tutti e tre ringiovaniti digitalmente.

Robert De Niro interpreta il protagonista Frank Sheeran e dimostra un’altra volta di essere perfettamente a suo agio con la personalità del noto sicario della mafia irlandese. Amorevole e iperprotettivo con le figlie, freddo e violento nelle esecuzioni, leale e intimo con Russell Bufalino, sincero e compassionevole con Jimmy Hoffa ed infine rispettoso ma allo stesso tempo sarcastico con i soci e collaboratori sia mafiosi che non. Un antieroe perfetto in linea con le sue note interpretazioni di uomini alienati dalla società o dediti alle abilità gangster in bilico tra la pacifica convivenza e la dura violenza della strada. Lui stesso ha consigliato la biografia del suo personaggio a Scorsese che l’ha poi convinto a dirigere il film, ritornando così insieme sul set dopo un periodo di pausa di 24 anni.

Joe Pesci che interpreta Russell Bufalino invece, ha un’interpretazione totalmente differente dai suoi ruoli gangster precedenti, passando quindi da un iroso e testa calda mafiosetto di basso rango come Tommy DeVito di Quei Bravi Ragazzi, ad un elegante, autorevole e assertivo boss della mafia del nord-ovest degli Stati Uniti. La sua interpretazione così fuori dal comune è ulteriormente accentuata anche da un ritorno sui set dopo 20 anni di ritiro dal mondo dello spettacolo, che però convinto dal suo amico regista, decide per l’ultima volta di regalare un personaggio costantemente freddo data dall’autorevolezza del suo rango, ma caldo e apprensivo nei riguardi di Frank, che lo tratta come se fosse un suo figlio. Un rapporto paterno semplicemente intimo e passionale, ma che nasconde tutti i germi del rispetto e dell’omertà mafiosa, sacrificando i sentimentalismi laddove non è possibile controllare la propria autorità.

Al Pacino interpreta a differenza dei suoi colleghi, un ruolo non da gangster ma da sindacalista colluso con le cosche mafiose ovvero Jimmy Hoffa, che personalmente reputo la performance migliore dell’intero cast.
Carismatico, orgoglioso, puntuale, pragmatico e apprensivo, sempre pronto a scoppiare di rabbia se i piani non funzionano come dovrebbero. Il che lo rende un personaggio estremamente estroverso al contrario di Frank, più mite e discreto, che ovviamente provoca puntuali scontri sia verbali che fisici con i propri colleghi e soci mafiosi. Una personalità focosa che Al Pacino tratteggia benissimo al personaggio di Jimmy Hoffa, che si completa poi perfettamente con l’amicizia sincera e professionale con Frank, che purtroppo per via dei suoi superiori, sarà costretto ad uccidere il suo stesso amico sporcandosi le mani e soprattutto la sua coscienza. Una fratellanza forgiata nel sangue che viene rappresentata allegoricamente dal dialogo grottesco finale in macchina, che suggerisce inizialmente una normale giornata di ordinaria amministrazione, fino alla rottura della tensione con il noto fatto di cronaca all’epoca oscurato.

Insomma, The Irishman è un capolavoro del genere gangster che meritava una distribuzione più massiccia nelle sale e che per via di varie sventure produttive rimarrà perennemente offuscato nella memoria collettiva del pubblico, e che forse proprio per queste sue disavventure produttive rappresenterà simbolicamente il canto del cigno del Cinema con la C maiuscola e del genere gangster stesso, che per decenni ha rivoluzionato il Cinema americano portandolo ad ispirare numerosi registi a cimentarsi nel genere e sfornare capolavori.
La fatica colossale e la ventata nostalgica che si porta dietro questa epopea gangsteriana in vecchio stile ci ricorda ancora una volta come una generazione di attori e registi abbiano veramente plasmato e forgiato gli stilemi del Cinema moderno.
Un’autorialità che ormai la Hollywood contemporanea si è dimenticata di supportare perché l’esperienza, la professionalità e la vecchiaia non sono più ricercati dalle logiche di mercato, che ormai condizionano sempre di più la riuscita di un prodotto cinematografico.
L’intrattenimento becero, i blockbuster, i sequel, i reboot, i remake e i revival sono la vera fonte di guadagno su cui marciare per consentire all’industria cinematografica di continuare a sopravvivere, sacrificando così la qualità filmica che da decenni aveva caratterizzato sia il cinema impegnato sia quello commerciale, adeguandosi di conseguenza ai voleri del pubblico senza invece educarlo a nuove frontiere cinematografiche che potrebbero benissimo coniugare il puro intrattenimento con una riflessione intelligente sulla società, sulla politica e altre tematiche attuali necessarie per comprendere il mondo che ci circonda.
L’orientamento del pubblico sembra invece remare contro quest’ultima affermazione, preferendo rimanere ancorati ad un passato che non si è vissuto o che ormai non si vive più, arrestando e appiattendo così il progresso culturale in nome di una gloria passata che ormai non ritornerà più.

Una svalutazione artistica e culturale che viene confermata dallo scontro durissimo scaturito sul web sulle dichiarazioni contro la Marvel di Scorsese, che sotto oggetto di mal interpretazioni di articoli clickbait, incontra le ire del pubblico accusando di senilità e scarsa competenza al regista italoamericano, definendo la sua visione del Cinema superficiale se non addirittura errata.
In realtà le affermazioni erano in risposta ad una conferenza stampa di The Irishman, dove il regista esprimeva il suo disinteresse nei film marvel definendoli semplici blockbuster d’intrattenimento come lo può essere un luna park, e che queste tipologie di film non dovrebbero monopolizzare mediaticamente i gusti e la percezione del pubblico, in particolare quello giovanile.
Riflessioni ed opinioni più che condivisibili, in quanto il Cinema non dovrebbe essere omogeneo nella sua offerta, ma eterogeneo, in modo da offrire al pubblico sia film commerciali che film d’autore proprio come lo è stato in passato.
Le dichiarazioni stesse del regista rispecchiano ovviamente anche una sua certa frustrazione insieme a tanti altri suoi colleghi nel non poter esprimere sé stessi liberamente, ritrovandosi così senza finanziamenti per realizzare le loro opere cinematografiche.
Senza una buone dose di attenzione e di lettura critica, il pubblico rimarrà sempre legato ad una versione superficiale delle fonti, sparando dunque sentenze e opinioni a profusione senza prima analizzare con cura le fonti da cui attinge le informazioni.
Un fattore culturale che trascende la fruizione dei film in sala al giorno d’oggi, ma che rappresenta perfettamente la crisi sia culturale che esistenziale delle nuove generazioni, distratte dalla virtualità e dall’immediatezza della Rete con una soglia d’attenzione sempre di più rasente allo zero.
Ed è il motivo per cui gli studios punteranno sempre di più a blockbuster spettacolari ed immediati per il nuovo pubblico che verrà, perché è la distrazione dell’azione e dell’effetto speciale che rappresenta la garanzia di un incasso sicuro e consistente.

Martin Scorsese è contrario a questa banalizzazione della Settima Arte e decide così di riunire la vecchia guardia per dimostrare che dei vecchietti settantenni hanno ancora qualcosa da insegnare ai giovani d’oggi.
Perché loro hanno vissuto la storia, perché hanno ispirato intere generazioni e perché hanno plasmato una cultura cinematografica che ancora oggi viene ricordata.
Forse un giorno soltanto i cinefili più duri e puri ricorderanno le loro gesta o forse i giovani di un domani riscopriranno i loro capolavori per crearne altri in futuro.

Di sicuro The Irishman ha bisogno di molta attenzione. E non per la sua durata. Ma per il suo messaggio. Per il suo intrattenimento. Per il suo Cinema.

Voto 9

Parasite (2019) di Bong Joon-ho

immagine per la recensione di parasite

Papà Kim: “Sono ricchi ma anche gentili”
Mamma Kim
: “Sono gentili perché sono ricchi”

Parasite rappresenta l’ultima fatica del regista sudcoreano Bong Joon-ho, famoso in occidente grazie alle sue pellicole hollywoodiane Snowpiercer e Okja, che lo hanno introdotto nel panorama del Cinema internazionale soprattutto per la sua spiccata critica sociale, ormai diventata un tratto distintivo della sua breve ma interessante filmografia.

Ritornato in madrepatria, il regista orientale decide un’altra volta di creare un’opera cinematografica di rara e indiscutibile potenza drammaturgica per veicolare l’ennesima critica sociale alla nostra contemporaneità, ricevendo plausi e premi internazionali che gli conferiscono infine la Palma d’oro al Festival di Cannes.
La mia curiosità nei confronti dell’ultimo lungometraggio del giovane cineasta coreano non era però totalmente polarizzata dalle lodi della critica internazionale, ma dal soggetto stesso della pellicola e dai precedenti film statunitensi diretti dal regista, che mi avevano colpito per la loro originalità nello sfruttare il genere distopico-fantascientifico per criticare il classismo e il neoliberismo imperante che affliggono il nostro mondo.
Temprato dalle sue esperienze all’estero ed ormai esperto nell’analizzare la fibra antropologica del suo paese, Bong Joon-ho stavolta decide di unire più generi cinematografici per veicolare la sua poetica, unendo la commedia, il dramma e il thriller per tratteggiare in modo dissacrante e grottesco l’enorme disparità di ricchezza presente in Corea del Sud.

La trama racconta le vicende della famiglia povera dei Kim composta dal padre Ki-taek, dalla madre Chung-sook, dal figlio Ki-woo e dalla figlia Ki-jeong. Il nucleo familiare è costretto a vivere in un seminterrato per via della situazione precaria in cui si ritrova, dovendo dipendere dal sussidio di disoccupazione dei genitori e dai lavori su commissione sottopagati offerti dalle piccole aziende del loro quartiere.
La svolta a questa situazione disagiata avviene quando il figlio Ki-woo incontra il suo amico ricco universitario, che gli dà la possibilità di sostituirlo come insegnante di ripetizione di inglese ad una figlia di una famiglia ricchissima, i Park.
Falsificando le sue competenze e la sua identità, Ki-woo si reca nella grandissima villa della famiglia alto borghese venendo accolto dalla signora Park, che colpita dalla disciplina e dalle abilità linguistiche del ragazzo, si convince ad assumerlo regolarmente come insegnante d’inglese di sua figlia Da-hye. Ki-woo, colpito dall’ingenuità della madre e dai disegni del figlio piccolo, convince la prima ad assumere sua sorella, costruendole una falsa identità come famosa laureata in una prestigiosa Università d’Arte di Chicago.
Una volta accolta nella reggia dei Kim, anche Ki-jeong comincia ad attirare le attenzioni della signora Park, spacciandosi come “art therapist” in grado di curare i traumi infantili di suo figlio Da-song. Conquistata la fiducia di Yeon-gyo, la scaltra figlia Kim escogita un piano machiavellico per far scacciare l’autista dei Park, in modo da sostituire quest’ultimo con suo padre.
Inserito come esperto e cordiale autista, Ki-taek insieme ai suoi figli escogita un ultimo piano per scacciare la governante dei Park, in modo da spianare la strada per l’inserimento dell’ultimo membro del nucleo familiare, ovvero la moglie Chung-sook. Dopo la riuscita del piano della famiglia Kim, tutta la concatenazione di passaparola e raccomandazioni li porta come dei parassiti ad instaurare una presa di potere nella vita della ricca famiglia Park, che attraverso l’arte della menzogna e della recitazione, trovano finalmente pace e benessere nella loro nuova e spaziosa abitazione.

Tutto sembra andare secondo i piani della scaltra e bugiarda famiglia Kim, quando a sovvertire lo status quo è una citofonata della ex governante dei Park, che chiede a tutti costi di poter entrare nella villa per riprendersi i suoi ultimi effetti personali lasciati in cantina. La famiglia Kim, inizialmente riluttante, decide alla fine di consentire alla povera donna di entrare nell’abitazione. Quest’ultimo gesto però, porterà a scoperchiare un vaso di Pandora inimmaginabile per tutti i personaggi della pellicola, che si ritroveranno inevitabilmente sommersi dalla violenza e dalla brutalità del parassitismo societario.

La genialità di Parasite passa indubbiamente dalla talentuosa messa in scena di Bong Joon-ho, che attraverso un mix di generi sapientemente calibrati nei tre atti riesce magnificamente a rappresentare l’eterna lotta di classe che il genere umano da sempre ha affrontato, andando oltre il classico cliché del povero buono ed intelligente e del ricco cattivo e stupido.
La critica sociale che permea nella totalità del film infatti, offre una disamina incredibilmente veritiera sulla disuguaglianza di reddito presente in Corea del Sud, ed esemplifica tutte le possibili conseguenze comportamentali che produce negli individui che vivono in una tale condizione diseguale. Mostrando così tutti i pregi e i difetti di tutti i personaggi presenti nel film, dove sia nella famiglia Kim che nella famiglia Park permea una sorta di parassitismo simbiotico irrinunciabile che è il motore fondante del capitalismo.

Il film infatti, parte inizialmente come una normale commedia sulle differenze tra ricchi e poveri, dove si assiste da parte di quest’ultimi una notevole capacità recitativa nel falsificare le proprie competenze e presentarsi come dei perfetti professionisti capaci nel proprio mestiere.
La riuscita della concatenazione di eventi che porterà inevitabilmente i Kim ad imbrogliare e dunque ad infiltrarsi nel nucleo familiare dei Park, è data principalmente dalla forza della collettività familiare, che sfruttando la superficialità e la stupidità della famiglia ricca, riesce non solo a guadagnarsi una paga dignitosa mai vista prima d’ora, ma anche ad instaurare una vera presa di potere nell’enorme abitazione della famiglia Park.
La grande spazialità della villa viene dunque conquistata meticolosamente dai parassiti costretti ad usare ogni singolo spazio del loro angusto seminterrato, e ciò dimostra come i poveri siano perennemente costretti ad utilizzare la loro incredibile capacità di adattamento per sfruttare al meglio ogni singola occasione offertagli dalla realtà che li circonda. L’intelligenza e la scaltrezza li rende dunque degli individui furbi ed affamati del benessere altrui, proprio come la natura dei parassiti che sono costantemente in ricerca di un corpo per nutrire il loro fabbisogno energetico.
Un drenaggio di risorse che i Park sono disposti ad accettare, in quanto vedono nei loro lavoratori soltanto una mera risorsa per soddisfare il loro fabbisogno personale, non curandosi quindi di approfondire la liquidazione dei loro dipendenti, allontanandoli con false motivazioni per salvare il prestigio familiare, tipico della cultura orientale.
La superficialità e l’indifferenza della famiglia Park viene ulteriormente evidenziata soprattutto dall’importanza data dal denaro come unica soluzione per risolvere i problemi dei loro figli, affidando così quest’ultimi alla professionalità di esterni, senza affrontare veramente di persona la profondità dei rapporti umani. La totale fiducia nella catena di raccomandazioni dei Kim e nei prodotti esteri è sinonimo di una lacuna psicologica che la famiglia Kim sfrutta sapientemente, perché consci della natura delle persone in quanto immersi costantemente nella quotidianità e non alienati dalla realtà come la maggior parte delle classi agiate.

La prevaricazione che se ne esce dal primo atto è dunque una folle e dissacrante avventura comica che esplora egregiamente tutte le differenze tra le due famiglie, che fa empatizzare completamente il pubblico con l’intelligenza della povera famiglia Kim in opposizione all’ingenuità della riccastra famiglia Park.
Il divertimento e le grasse risate sia della famiglia Kim sia quella del pubblico vengono smorzate però da un plot twist inaspettato che è degno di un thriller alla Hitchcock, che infatti Bong Joon-ho lo riprende nella costruzione dell’incredibile suspance, sacrificando la commedia per dare spazio al dramma sociale, mettendo in dubbio la moralità dei Kim e dunque dello spettatore che aveva tifato per tutto il tempo per loro.
L’inaspettata visita notturna della ex governante cacciata settimane prima, stravolge tutte le certezze e la presa di potere dei Kim sull’abitazione dei Park, dove scoprono che all’interno di quest’ultima vive un altro nido parassitario nel bunker segreto progettato dal prestigioso architetto della villa. La governante infatti, ci teneva in segreto suo marito, dandogli cibo e acqua grazie allo stipendio guadagnato dai Park, che una volta scoperto il complotto orchestrato ai suoi danni, decide di minacciare la famiglia Kim inviando un loro video in cui si smascherano ingenuamente, ricattando e mettendo dunque in discussione tutto l’ingegnoso strumento di copertura creato all’inizio del film.
Un ricatto violento e giusto che porta inevitabilmente allo scontro sia psicologico che fisico tra i due nuclei familiari poveri, che riflette perfettamente la condizione sociale a cui sono sottoposti i ceti medio-bassi oggigiorno, che pur di tutelare il loro microscopico benessere conquistato con sudore e fatica, decidono di scontrarsi a vicenda piuttosto che affrontare insieme le disparità che li affliggono. Una guerra fra poveri che non fa che legittimare il benessere dei ricchi, che ignari o indifferenti alle difficoltà dalle classi considerate da loro più abbiette, non si interrogano minimamente sulla complessità di un sistema diseguale e colluso.
Il sistema a scatole cinesi simile ad una matrioska instaurato all’insaputa dei Park, è destinato quindi a collassare su sé stesso, infatti una volta ristabilita l’autorità invisibile della famiglia Kim, porta alla ex governante e a suo marito a decadere nel loro status sia sociale che umano nelle viscere della Terra, ovvero il freddo e sporco bunker segreto sigillato nella cantina.

La dubbia moralità dei Kim esplica perfettamente la dura realtà che i più poveri devono sopportare, dove la loro natura più infame e violenta deve emergere pur di sopravvivere in un mondo crudele ed ingiusto come quello capitalista di stampo neoliberista.
Il marcio sotto il tappeto e gli scheletri nell’armadio non sono però l’unica prerogativa dei poveri, infatti gli stessi genitori Park dimostrano come nonostante vogliano apparire gentili, profumati e perbenisti, in realtà non siano altro che dei bugiardi e volgari; in particolare quando criticano l’odore del signor Kim mentre da vestiti si scambiano effusioni erotiche, fantasticando sulle mutandine lasciate dalla figlia dei Kim e sulla possibile droga lasciata sui sedili posteriori della loro stessa auto.
Una differenza invisibile che i ricchi da sempre intendono mantenere con i poveri, in modo da minimizzare i rapporti con quest’ultimi per rimarcare la loro presunta superiorità sociale e morale.

La crescente ma invisibile tensione dei Kim costretti a nascondersi come scarafaggi dai Park e la disperazione del marito della governante che vede sua moglie morire, porta al climax finale della pellicola intrisa ormai da tinte horror e splatter, dove tutta la frustrazione e la violenza delle classi più povere si riversa sulla celestiale e artificiosa vita dei ricchi, che porta tragicamente la morte in entrambi i fronti.
Il sangue, l’odore, la sporcizia, l’arma, la rabbia, l’ipocrisia, la tristezza e l’irrazionalità vengono finalmente allo scoperto alla luce del sole, dove il dramma sociale si consuma proprio davanti agli occhi di coloro che temono o vogliono nascondere tali sensazioni e stati d’animo. La lotta di classe che emerge dirompente nella sua più completa e barbara manifestazione, mettendo in luce come un’insofferente malessere sociale prima o poi si riverserà nelle case e nelle strade di tutti noi.

Bong Joon-ho riesce incredibilmente attraverso una commistione di generi a far ridere, sorprendere, criticare ed infine riflettere il suo pubblico. Attraverso una regia sublime nel rappresentare il potere degli spazi casalinghi e della dolorosa verticalità che contraddistingue la divisione fra ricchi e poveri, analizza in tutti i suoi aspetti la natura umana, che divisa da un sistema che privilegia il classismo costringendo i più poveri a prevaricare sul prossimo sognando la vita dei ricchi, genera soltanto violenza, disparità e una concatenazione di eventi tragici che forse mai si fermerà.

Parasite è un film orientale che comunica perfettamente con la nostra contemporaneità, sottolineando tutti gli aspetti universali che contraddistinguono l’uomo moderno, facendo riflettere sia su un possibile futuro artistico che potrebbe intraprendere la Settima Arte nel campo della critica sociale, sia sul nostro mondo ormai plasmato dalla New Economy, così innovativa ed avanzata nelle sue tecnologie, così profondamente distruttiva sul piano sociale, culturale ed individuale.
Vedere quest’opera magistrale del giovane cineasta Bong Joon-ho, mi ha invogliato a recuperare le sue pellicole coreane e a riscoprire tutte le gemme del Cinema orientale che hanno molto da insegnare al nostro contemporaneo cinema occidentale. Soprattutto quando un regista sudcoreano cita una canzone di Gianni Morandi per enfatizzare un momento drammaturgico con un taglio di montaggio semplicemente magistrale nella sua potenza visiva e narrativa.

Saremo costretti a varcare la soglia dell’integrità morale per un benessere più grande o saremo capaci di sederci ad un tavolo pacificamente per pianificare un futuro più roseo ed equo?

Parasite ci pone la domanda. Toccherà a noi rispondere. Sempre se ne avremo voglia.

Voto: 10

Proprietario e penna del sito "L'angolo di Gio", blog cinefilo dedicato alla Settima Arte e in parte alle serie tv. Dopo anni ad aver coltivato la propria passione per il Cinema, matura la passione per la scrittura che lo porta a recensire film non solo nei suoi canali social e nel suo blog, ma anche per il sito filmtv.it (ormai top user) e a collaborare per la prima volta con il sito d'animazione "Daelar Animation" gestito da Isaia Silvano. Nel tempo libero oltre a vedere e leggere tutto ciò che riguarda la Settima Arte senza escludere la frequentazione abituale della Sala, si informa, studia e legge saggi e video di Geopolitica (i tomi di Limes abbondano nelle sue librerie). Da sempre ha un sogno nel cassetto: scrivere un libro monografico sulle sorelle Wachowski, le sue registe preferite in assoluto.

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